Storia di Roberto che vola

Quando infuria la tempesta
Quando piove a catinelle
Fuor non mettono la testa
Bambinelli e bambinelle.
Ma con stupido ardimento,
Sfida l’acqua, sfida il vento
Quello sciocco di Roberto
Con in man l’ombrello aperto.

Storia di Roberto che vola

furor dell’uragano
Strappa, schianta fiori e piante.
Tien l’ombrello fermo in mano
Quel fanciullo petulante.
Ma l’ombrello rigonfiato
S’alza e il bimbo è trascinato.
Egli grida! Chi lo sente
Tel terribile frangente?
Ver le nubi va l’ombrello
Preceduto dal cappello.

Storia di Roberto che vola

Su nel cielo più lontano
È Roberto ormai perduto.
Lo cercar dovunque invano,
E nessun l’ha più veduto.

La storia di Giannino Guard’in aria

Mentre va Giannino a scuola
Ei contempla con diletto
Or la rondine che vola,
Or la nube, il ciel, l’insetto
O il pulviscolo leggiero
Quasi al par del suo pensiero,
Sì distratto che non vede
Dove mette il picciol piede.
Guard’in aria e non Giannino
È chiamato quel bambino.

Ecco un can che ver lui viene;
Guard’in aria non lo scorge,
Perchè fisso il guardo ei tiene
Alla nuvola che sorge.
Nessun grida: “Olà Giannino,
Guarda il can che t’è vicino!”
E si danno un forte urtone
Guard’in aria ed il barbone.
Patapum! ecco cascato
Col barbone è lo sventato!

Con in man la sua cartella,
Va Giannino a scuola in fretta.
Passa via la rondinella
Ratta al par di una saetta.
Ei la segue tutto attento
Che s’aggira in mezzo al vento,
Né s’avvede che arrivato
Proprio è all’orlo d’un fossato.
Tre vezzosi pesciolini,
Agitando i corpicini,
In su guizzano ridendo,
E fra loro van dicendo:
Se Giannino innanzi va,
Egli un bagno prenderà!”

Ma la rondine fissando,
Guard’in aria non dà ascolto,
Ed un tonfo miserando
Dà nell’acqua capovolto.

I vezzosi pesciolini,
Agitando i corpicini,
In giù guizzano fuggendo,
E fra loro van dicendo:
“Giù scappiamo in fondo al fosso,
O costui ci viene addosso.”

Storia di Giovannino Guard'in aria

Sono accorsi i barcajoli
Che, con raffi e con pioli,
Guard’in aria han salvato
Da quel bagno inaspettato.
Egli ha livida la faccia,
Sovra il corpo e sulle braccia
La camicia s’è incollata
E qual spugna s’è inzuppata.
Dai capelli giù a torrenti
Cade l’acqua, ei batte i denti,
F pel freddo trema tutto,
Come piange, come è brutto!
La cartella ei cerca invano,
Già galleggia assai lontano.

I vezzosi pesciolini,
Agitando i corpicini,
In su tornano ridendo
E fra loro van dicendo:
“Ha creduto quel bambino
D’esser forse un pesciolino?
La paura avrà servito
A corregger lo stordito.”

La storia di Filippo che si dondola

Storia di Filippo che si dondola

“Ma vuoi proprio ch’io perda la speranza
Di vederti tranquillo or che si pranza?”
Dice a Filippo il padre corrucciato,
A Filippo nel mal sempre ostinato.
La mamma intanto gira l’occhialetto
A guardar le vivande sul deschetto.
Ma quel fanciullo non si dà pensiero
Del rimbrotto severo,
E scalpita e tempesta,
Grida, saltella, pesta
I pugni sulla tavola, si dondola
Sovra il sedile e ciondola
Prendendo la tovaglia. “Oh, che stordito,
Gli dice il babbo, a lui puntando il dito,
Non dubitare che sarai punito!”

Ma al babbo non dà ascolto,
E la tovaglia tira,
E ad oscillar s’ostina,
Imprevidente e stolto.
Ecco cade la sedia e capovolto
Sen va Filippo. Oh, che spavento, oh, mira
Che orribile rovina!
Filippo, nel cader, con sè trascina
La tovaglia coi piatti, le stoviglie,
Le salse, le vivande, le bottiglie.
Egli giace piangendo
Sotto la mole del disastro orrendo,
Che contempla, girando l’occhialetto,
La mamma cui il cor si schianta in petto!

Ohimè, che al suol caduto,
Tutto il pranzo è perduto!
Ahi, son spezzati i piatti,
E alla mensa dei gatti
I bocconcin squisiti
Or saranno imbanditi.
Si guardano l’un l’altro i genitori,
In quel fiero frangente,
Ma non dicono niente:
Troppo cruccia i lor cuori
I1 pensiero del figlio sciagurato
Che li condanna a un digiunar forzato.

La storia della minestra di Gasparino

Gasparino era un bamboccio
Assai florido e grassoccio.
Egli avea fresca la guancia,
E ben tonda avea la pancia.
Si mangiava ogni mattina
Con piacer la minestrina.
Ma un bel giorno, cominciò
A gridar: “Io non la vo’!
No, no, no,
La minestra, io non la vo’!”

Dopo un giorno Gasparino
S’era fatto magrolino.
Ma a gridar ricominciò:
“La minestra, non la vo’!
No, no, no.
La minestra, io non la vo’!”

Gasparino, il dì seguente,
Diventato è trasparente.
Ma ostinato ancor gridò:
“La minestra più non vo’!
No, no, no,
La minestra più non vo’!”

Ecco il quarto dì venuto!
Gasparino è sì sparuto,
Che in piè reggersi non sa,
E davvero fa pietà.
Pesa men d’un moscerino
L’infelice Gasparino!
Quattro giorni ha digiunato,
Ed al quinto è già spacciato!

La storia della minestra di Gasparino

Qual pietra sepolcrale ha una zuppiera,
Eppur sì vispo e sì leggiadro egli era!

La storia del bambino che si succhia i pollici

Dice la mamma: ” Mio buon Corrado,
Per pochi istanti io me ne vado,
Vo’ che tu sia studioso e buono,
Non far disordine, non far frastuono.
E guai se il pollice succhiar vorrai!
In modo orribile ten pentirai.
Tu non l’aspetti, ma, di soppiatto,
Entrerà il sarto tutto ad un tratto,
Taglierà il pollice col forbicione,
Come se panno fosse o cartone “.

La mamma appena la soglia ha tocca,
Ed ecco il pollice è nella bocca!

S’apre la porta ed il sartore
Entra a gran salti pien di furore.
Col forbicione, zig zag, recide
Al bimbo i pollici; il bimbo stride,
Invan, ché il sarto se n’è già andato
Col forbicione insanguinato!

La storia del bambino che si succhiava i pollici

La mamma attonita e sbigottita
Vede Corrado senza due dita,
E quei due pollici, così tagliati,
Mai più a Corrado son rispuntati.

La storia del fiero cacciatore

Storia del fiero cacciatoreEra il mattino, e il fiero cacciatore
Col suo nuovo giubbetto che ha il colore
Dell’erba fresca in un bel dì d’aprile,
Col corno, col carniere e col fucile,
Sen va pei campi e per le dense selve
A far gran preda di tremende belve.

Gli occhiali ha collocato sovra il naso
E d’affrontar la lepre è persuaso.
La lepre intanto, che fra l’erba siede,
Ride del cacciator che non la vede.

Ma sotto il sol, che lo rendeva ansante,
A lui pare il fucil troppo pesante.
Sotto una pianta a riposar si giace,
E la lepre lo guarda e sen compiace.
Quando il sente russar beatamente,
La lepre s’avvicina all’imprudente;
Gli porta via lo schioppo e poi gli occhiali.
E via sen corre, quasi avesse l’ali.
La lepre sul nasino ha collocato
Gli occhiali ed il fucile ecco ha spianato.
Prende di mira il fiero cacciatore,
A cui per il terror traballa il core.
Ei fugge strepitando: ” Aita, aita,
Gente, gente, salvatemi la vita! “

Davanti a un pozzo il cacciatore è giunto
Vederlo e saltar dentro è solo un punto.
A lui preme salvar la vita cara.
La lepre in quel momento il colpo spara!

Del cacciator la moglie al finestrino,
I1 caffè si sorbiva in un piattino.
La lepre, col suo colpo, le spezzò
I1 piattin nelle mani, ed ella: “Ohibò! ”
Indignata proruppe. Il leprottino
Della lepre gentile figliolino,
Accanto al pozzo, sull’ameno prato
Sen giaceva tranquillo, accoccolato,
Quando una goccia di caffè bollente
Ecco gli casca sul nasin; repente
Si scote e grida: ” Chi mi brucia il naso? ”
E vede il cucchiaino al suol rimaso.
Lo prende e lambe col sottil linguino
Lo sgocciolante umore zuccherino.

La storia del Moretto

Storia del morettoPiù nero della pece e del carbone
Passeggia un bel moretto sul bastione,
E si ripara, con l’ombrello rosso,
Dal sole ardente che l’avea percosso.
Ed ecco correr verso lui con fretta
Gigino che ha in sua man la bandieretta,
E Gaspare lo segue assai dappresso
Spingendo il cerchio e saltellando anch’esso.
Poi vien Guglielmo dalla gamba snella
Brandendo nella mano una ciambella.
E gridan tutti e tre: ” Ma questo è un mostro
Che è tinto col carbone o con l’inchiostro “.

Ma il maestro Nicolò
Vide il caso e s’indignò.
Preso il grande calamaio,
Uscì e disse: ” A questo guaio
Io porrò rimedio e tosto.
O fanciulli, al vostro posto!
Non seccate quel moretto.
Ma che colpa ha il poveretto,
Se la pelle scura, scura
Ei sortì dalla natura? ”
Ma nessun si dà pensiero
Del rimprovero severo,
E persiste quel terzetto
A deridere il moretto,
E al maestro Nicolò,
Che stupito li guardò,
E terribile divenne
Essi gridano: ” Vattenne! “

Allor disse Nicolò:
” Ben pentire io vi farò! ”
E distese i suoi braccioni
E raggiunse i tre burloni,
Gasparino con Gigino
E Guglielmo il birichino.
Dei due primi egli fa un paio
Da tuffar nel calamaio.

E a Guglielmo spaventato,
Che, sentendosi acchiappato,
Grida: “Aiuto, al foco, al foco!”
“Ti diverte questo gioco? ”
Chiede il grande Nicolò,
E con gli altri lo tuffò!
Quando poi li trasse fuore
Tutti e tre metteano orrore.

Oh, come neri diventar costoro,
Assai più neri del leggiadro moro!
Il moro se ne va con l’ombrellino
E i tre monelli il seguon da vicino.
Se non fossero stati sì sventati
Il gran maestro non li avria tuffati
Del calamaio nell’immondo bagno.
Hanno fatto davvero un bel guadagno!

La tristissima storia degli zolfanelli

Tristissima storia degli zolfanelli
Di sala in sala, Paolinetta
Gira e rigira, sola soletta.
Di casa uscendo la sua mammina
Disse: ” Ricordati di star bonina “,
Ma, se non teme d’esser sgridata,
Grida, fa il chiasso quella sventata.

Ecco essa vede sul tavolino
De’ zolfanelli lo scatolino.
” Oh, che grazioso bel giocherello!
Io voglio accendere lo zolfanello.
La mamma accenderlo veduto ho spesso,
Io vo’ ripetere quel gioco istesso. “

E Minz e Maunz, i due gattini,
Alzano al cielo i lor zampini.
Gridano: “Il babbo questo non vuole,
Più non rammenti le sue parole?
Miao, miao, miao.
Suvvia, finiscila con questo gioco,
Che c’è pericolo di prender foco. “

Ai due gattini Paolinetta,
Intenta al gioco, non può dar retta.
Ecco la fiamma s’accende e brilla,
Crepita il legno, scoppia, scintilla.
Tutta contenta la pazzerella
Agita il foco, ride, saltella.

E Minz e Maunz, i due gattini,
Alzano al cielo i lor zampini.
Gridan: ” La mamma questo non vuole.
Più non rammenti le sue parole?
Miao, miao, miao!
Suvvia, finiscila con questo gioco,
Che c’è pericolo di prender foco. “

Ahimè! la fiamma la bimba investe,
Ardon le trecce, arde la veste.
Corre la misera di loco in loco,
Non c’è più scampo, è tutta in foco.

E Minz e Maunz inorriditi
Mandano acuti urli infiniti.
Miao, miao, miao!
Qui, qui venite, venite in fretta
Muore bruciata Paolinetta “.

Brucia in un soffio, sfuma in un punto
Veste e persona, tutto è consunto.
Un po’ di cenere e due scarpini,
Cara memoria de’ suoi piedini,
È quel che resta! Non c’è più nulla
Di quell’indocile, vispa fanciulla!

E Minz e Maunz, i due gattini
Tergon le lagrime coi lor zampini,
Miao, miao, miao!
Ahi, babbo e mamma, ahi, dove siete?
Ahi, vostra figlia più non vedrete! ”
Come un ruscello che irriga i prati
Scorron le lagrime dei desolati.

La storia del cattivo Federigo

Storia del cattivo FederigoVo’ narrarvi un gran castigo
Ch’è toccato a Federigo.
Delle bestie il patimento
Era a lui divertimento.
Alle mosche quel monello
Appressavasi bel bello,
Se posar vedeale chete
Sulla candida parete.
Zaf ! la mano egli serrava,
E le incaute imprigionava.
Poi le alucce dell’insetto
Via strappava per diletto.

Con in man lo sgabellino
Un dì uccise il canarino.
Inseguiva come un matto
La gallina, il cane, il gatto,
Ed un giorno quel feroce,
Spenta in lui del cor la voce
Quasi crederlo non lice,
Bastonò la sua nutrice!

Stava un cane a una sorgente
E beveva avidamente.
Gli s’appressa il birichino,
E, col piede e col frustino,
Lo percote. Il can guaisce, Egli i colpi ribadisce,
Finché il cane a lui s’avventa
Ed il piè ch’è alzato addenta.
Federigo piange ed urla,
Ed il can gli fa una burla.
Lascia libero il nemico,
Spicca un salto, e, in men che dico,
Il frustin ch’è al suol cascato
Piglia in bocca, e difilato
Via sen corre vincitore
Del crudel persecutore.

Giunto a casa, il morsicato
Tosto a letto fu mandato,
Ché la gamba gli doleva
Sì che, notte e dì, gemeva.
Il dottor con grave piglio
Stava al piè del suo giaciglio.

E un’amara medicina
Gli versava ogni mattina.
Sul sedil del birichino
Siede a tavola il mastino,
Ed al posto del ferito,
Mangia il pranzo già allestito,
Il frustin con sé ha portato,
Sul sedile l’ha posato,
E lo tiene con gran cura
Ricordando l’avventura!

Pierino Porcospino

Pierino Porcospino
Oh, che schifo quel bambino!
È Pierino il Porcospino.
Egli ha l’unghie smisurate
Che non furon mai tagliate;
I capelli sulla testa
Gli han formata una foresta
Densa, sporca, puzzolente.
Dice a lui tutta la gente:
Oh, che schifo quel bambino!
È Pierino il Porcospino.

Torture

Nulla è cambiato.
Il corpo prova dolore,
deve mangiare e respirare e dormire,
ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue,
ha una buona scorta di denti e di unghie,
le ossa fragili, le giunture stirabili.
Nelle torture di tutto ciò si tiene conto.
Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano e ci sono, solo la Terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.
Nulla è cambiato.
C’è soltanto più gente,
alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,
reali, fittizie, temporanee e inesistenti,
ma il grido con cui il corpo
ne risponde era, è
e sarà un grido di innocenza,
secondo un registro e una scala eterni.
Nulla è cambiato.
Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze.
Il gesto delle mani che proteggono il capo
è rimasto però lo stesso,
il corpo si torce, si dimena e si divincola,
fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.
Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l’anima vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è
e non trova riparo.

di Wislawa Szymborska

Il Signor Cogito sulla necessità della precisione

1
il Signor Cogito
è preoccupato per un problema
della matematica applicata

le difficoltà che incontriamo
davanti a semplici operazioni aritmetiche

i bambini sono fortunati
sommano le mele
sottraggono un seme dagli altri
il conto è giusto
l’asilo nido del mondo
pulsa di un calore sicuro

misurate le particelle della materia
pesati i corpi celesti
e solo negli affari umani
prevale una negligenza riprovevole
mancanza dei dati precisi
per l’infinito della storia
gira un fantasma
il fantasma dell’indefinito

quanti greci morirono a Troia
-non lo sappiamo

specificare le perdite esatte
su entrambi i lati
nella battaglia di Gaugamela
Azincourt
Lipsia
Kutno

e il numero delle vittime del
bianco
rosso
marrone
-ah colori innocenti colori
-terrore

-non lo sappiamo
veramente non lo sappiamo

il Signor Cogito
rifiuta alla spiegazione ragionevole
che era successo tempo fa
il vento ha mescolato le ceneri
il sangue è finito nel mare

le spiegazioni ragionevoli
aumentano l’ansia
del Signor Cogito
perché anche quello
che succede davanti ai nostri occhi
sfugge alle cifre
perde la dimensione umana

da qualche parte deve esserci un errore
un difetto fatale degli attrezzi
o un peccato degli atrezzi

2
un paio di esempi semplici
della contabilità delle vittime
il numero preciso dei morti
in una catastrofe aerea
è facile da determinare

importante per gli eredi
e immerse nel dolore
società di assicurazioni

prendiamo l’elenco dei passeggeri
e dello staff
vicino a ogni nome
mettiamo una crocetta

un po’ più difficile
nel caso
delle catasrofi dei treni

bisogna rimettere insieme
i corpi strappati
purché nessuna testa
rimanga randagia

durante disastri
elementari
il conto
diventa
complicato

contiamo i salvati
ed il resto incognito
che non è né vivo
né definitivamente morto
viene chiamato con un nome strano
di dispersi

hanno ancora la possibilità
di ritornare da noi
dal fuoco
dall’acqua
da dentro la terra

se ritorneranno va bene
se non ritorneranno vabbé

3
adesso il Signor Cogito
sale
sul più alto trabballante
livello dell’indefinibilità
quanto è difficile trovare i nomi
di tutti quelli che sono morti
nella lotta con un potere disumano

i dati ufficiali
diminuiscono il loro numero
di nuovo senza pietà
decimano i morti

e i loro corpi spariscono
nei seminterrati spaziosi
degli enormi commissariati

i testimoni oculari
accecati con il gas
storditi con le salve di cannone
paura e disperazione
sono disposti ad esagerare

gli osservatori casuali
riportano dei numeri dubbi
accompagnati dalla vergognosa
parola circa

e in questi casi è indispensabile
l’attualità
non si può sbagliare
neanche di uno

siamo nonostante tutto
custodi di nostri fratelli
il non-sapere dei dispersi
mina la realtà del mondo

getta nell’inferno delle parvenze
la daiabolica rete di dialettica
che dice che non vi è differenza
tra il disagio e un fantasma

quindi dobbiamo sapere
contare attentamente
chiamare di nome
preparare per la strada da fare

in una ciotola di argilla
miglio semi di papavero un pettine di avorio
punte di frecce
l’anello di fede

amuleti

di Zbigniew Herbert

Il giorno della fine del mondo

Il giorno della fine del mondo
L’ape gira sul fiore del nasturzio,
il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
Giovani passeri si appoggiano alle grondaie
E il serpente ha la pelle dorata che ci si aspetta.

Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
L’ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
I fruttivendoli gridano in strada
E la barca dalla vela gialla si accosta all’isola,
Il suono del violino si prolunga nell’aria
E disserra la notte stellata.

E chi si aspettava folgori e lampi,
Rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
Finché il calabrone visita la rosa,
Finché nascono rosei bambini,
Nessuno crede che già stia avvenendo.

Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.

di Czeslaw Milosz

Casa sul mare

ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.

Istanti

Se io potessi vivere nuovamente la mia vita
nella prossima cercherei di commettere più errori.

Non tenterei di essere tanto perfetto, mi rilasserei di più
sarei più stolto di quello che sono stato,
in verità prenderei poche cose sul serio.

Correrei più rischi, viaggerei di più, scalerei più montagne,
contemplerei più tramonti e attraverserei più fiumi,
andrei in posti dove mai sono stato,
avrei più problemi reali e meno problemi immaginari.

Io sono stato una di quelle persone che vivono sensatamente,
producendo ogni minuto della vita.

E’ chiaro che ho avuto momenti di allegria,
ma se tornassi a vivere, cercherei di avere soltanto momenti buoni.

Perché di questo è fatta la vita,
solo di momenti da non perdere.

Io ero una di quelle persone che mai andavano da qualche
parte senza un termometro, una borsa d’acqua calda, un ombrello e un paracadute:
se tornassi a vivere, viaggerei più leggero.

Se io potessi tornare a vivere, comincerei ad andare scalzo
all’inizio della primavera
e continuerei così fino alla fine dell’autunno.

Girerei più volte nella mia strada, contemplerei più aurore
e giocherei di più con i bambini.

Se avessi un’altra volta la vita davanti…
Ma, vedete, ho ottantacinque anni e non ho un’altra possibilità.

di Jorge Luis Borges