Il soldato Jack

“Signore, il mio amico è tornato dal campo di battaglia. Chiedo il permesso di andare a prenderlo”. “Permesso non concesso”, replicò l’ufficiale: “Non voglio che rischi la vita per un uomo che probabilmente è già morto”.
Il soldato uscì lo stesso e rientrò un’ora dopo ferito mortalmente, trasportando il cadavere dell’amico. L’ufficiale era fuori di sé dalla rabbia. “Te l’avevo detto che era morto. Ora vi ho persi tutti e due. Dimmi, valeva la pena di rischiare per portare indietro un cadavere?”. Il soldato morente rispose: “Oh sì, signore. Quando l’ho raggiunto, era ancora vivo e mi ha detto: “Jack, ero sicuro che saresti venuto”

Il corvo e i suoi piccini

Un corvo aveva fatto il nido, in un’isola. Quando gli nacquero i piccini, pensò che sarebbe stato meglio trasportarli sulla terraferma. Prese tra gli artigli il figlio più piccolo e si staccò dall’isola volando sopra lo stretto. Quando giunse in mezzo al mare, si sentì molto stanco: le sue ali battevano l’aria sempre più lente. ” Oggi io sono grande e forte e porto mio figlio sul mare perché mio figlio è debole – pensava il corvo – quando esso sarà cresciuto e sarà diventato forte, mentre io sarò debole e vecchio, chissà se mi ricompenserà delle fatiche che io sostengo oggi e se mi trasporterà come io faccio, da un luogo all’altro?”
Il corvo decise allora di accertarsi subito e chiese al suo piccolo:
– Quando tu sarai forte e io sarò vecchio e debole, mi aiuterai come faccio io ora con te? Mi trasporterai da un luogo all’altro? Dimmi la verità….
Il piccolo corvo vide in basso il mare e, temendo che il padre lo lasciasse cadere, si affrettò a rispondere:
– Si, sì, ti aiuterò, ti trasporterò -.

La gobba del cammello

Narrerò ora, come spuntò la gobba al Cammello.
All’inizio del mondo, quando tutto era ancora nuovo, e gli Animali avevano appena incominciato a lavorare per l’Uomo, viveva, in mezzo al Deserto Ululante, un Cammello, che era proprio un gran fannullone, tanto che mangiava rametti e pruni, tamarischi e altre erbe, che poteva trovare nel deserto senza scomodarsi troppo; e quando Qualcuno gli rivolgeva la parola, rispondeva: – Bah! – solo: – Bah! – e nient’altro.
Perciò, un lunedì mattina, il Cavallo andò da lui, con la sella sulla schiena e il morso in bocca, e disse:
– Cammello, ehi, Cammello, vieni fuori a trottare come tutti noi.
– Bah! – fece il Cammello; e il Cavallo se ne andò e lo riferì all’Uomo.
Poi andò da lui il Cane, con un pezzo di legno in bocca; e disse: – Cammello, ehi, Cammello, vieni a stanare la selvaggina come tutti noi.
– Bah! – fece il Cammello; e il Cane se ne andò e lo riferì all’Uomo.
Poi andò da lui il Bue, con il giogo sul collo, e disse: – Cammello, ehi, Cammello, vieni ad arare come tutti noi.
– Bah! – fece il Cammello, e il Bue se ne andò e lo riferì all’Uomo.
Sul finire del giorno l’Uomo chiamò a raccolta il Cavallo, il Cane e il Bue e tenne loro questo discorsetto:
– O miei Tre, sono molto spiacente per voi (con il mondo ancora tutto nuovo); quel Fannullone nel deserto non vuol proprio lavorare, mentre ormai dovrebbe già essere qui come voi; per cui sono costretto lasciarlo solo, e voi dovrete lavorare il doppio per supplirlo.
Ciò irritò molto i Tre (con il mondo ancora tutto nuovo); ed essi si riunirono al confine del Deserto a congiurare; e venne anche il Cammello, più indolente che mai, ruminando erba, e rise loro in faccia. Poi fece: – Bah! – e se ne andò.
Allora arrivò il Genio che ha in custodia Tutti i Deserti, avvolto in una nube di polvere (i Geni viaggiano sempre in questo modo, perché è Magia), e si fermò a parlare coi Tre.
– Genio di Tutti i Deserti, – disse il Cavallo, – è giusto che qualcuno se ne stia in ozio con il mondo tutto nuovo?
– No di certo, – rispose il Genio.
– Ebbene, – soggiunse il Cavallo, – c’è un animale in mezzo al tuo Deserto Ululante, con lungo collo e lunghe gambe che non ha fatto ancora niente da lunedì mattina. Non vuole trottare.
– Ohibò! – esclamò il Genio; – per tutto l’oro dell’Arabia, ma questo è il mio Cammello! e che scusa trova?
– Dice: “Bah!” – disse il Cane; – e non vuole andare a stanare la selvaggina.
– Dice qualcos’altro?
– Solo: “Bah!” e non vuole arare, – disse il Bue.
– Benissimo, – fece il Genio; – se avete la pazienza di aspettare un minuto lo farò sgobbare io.
Il Genio si avvolse nel suo mantello di polvere, andò nel deserto, e trovò il Cammello più indolente che mai, che rimirava la sua immagine riflessa in una pozza d’acqua.
– Mio lungo e indolente amico, – disse il Genio, – ho sentito sul tuo conto cose che ti fanno poco onore. È vero che non vuoi lavorare?
– Bah! – rispose il Cammello.
Il Genio si sedette, col mento fra le mani, e si accinse ad escogitare qualche grande incantesimo, mentre il Cammello continuava a rimirare la sua immagine riflessa nell’acqua.
– Tu hai costretto i Tre a lavorare il doppio da lunedì mattina, e tutto per colpa della tua insopportabile pigrizia – disse il Genio, e continuò a pensare incantesimi col mento fra le mani.
– Bah! – fece il Cammello.
– Non lo ripeterei più se fossi in te, – disse il Genio; – potresti dirlo una volta di troppo. Fannullone, voglio che tu lavori.
E il Cammello ripeté ancora: – Bah! – ma non aveva ancora finito di dirlo, che vide il suo dorso, del quale era così orgoglioso, gonfiarsi e gonfiarsi finché si formò su di esso una grande, immensa, traballante gob-bah.
– Vedi cosa ti è successo? – disse il Genio; – questa gobba te la sei voluta proprio tu, con la tua pigrizia. Oggi è giovedì, e tu non hai fatto ancora nulla, mentre il lavoro ha avuto inizio lunedì. Ora devi andare a lavorare.
– Come è possibile, – protestò il Cammello, – con questa gobbah sulla schiena?
– Anzi, è fatta apposta, – replicò il Genio, – perché hai perso quei tre giorni. Ora potrai lavorare per tre giorni senza mangiare, perché puoi vivere a spese della tua gobbah; e non ti venga in mente di dire che non ho fatto niente per te. Esci dal deserto, vai a raggiungere i Tre, e comportati bene. E sgobba!
E il Cammello andò a raggiungere i Tre, e sgobbò, nonostante la gobba. E da quel giorno in poi il Cammello ebbe sempre la gobbah (noi, ora, la chiamiamo gobba per non offenderlo); ma non è ancora riuscito a recuperare i tre giorni che ha perso all’inizio del mondo, e non ha ancora imparato a comportarsi come si deve.

Il tasso barbasso del Tasso

Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa.

Anche a quei tempi la chiamavano così.

Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.

Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi. Un caso.

Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.

Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri.

Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “È il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”. Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?”. “Della quercia del Tasso.” E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”.

Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due). Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso. Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guer-cia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.

Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi. Viveva.

E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”.

Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”.

Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”.

Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso. Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distin-guerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.

Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

Il pupazzo di neve

«Fa così freddo che scricchiolo tutto» disse l’uomo di neve. «Il vento, quando morde, fa proprio resuscitare! Come mi fissa quello là!» e intendeva il sole, che stava per tramontare. «Ma non mi farà chiudere gli occhi, riesco a tenere le tegole ben aperte.»
Infatti i suoi occhi erano fatti con due pezzi di tegola di forma triangolare. La bocca invece era un vecchio rastrello rotto, quindi aveva anche i denti.Era nato tra gli evviva dei ragazzi, salutato dal suono di campanelli e dagli schiocchi di frusta delle slitte.Il sole tramontò e spuntò la luna piena, rotonda e grande, bellissima e diafana nel cielo azzurro.
«Eccolo che arriva dall’altra parte!» disse l’uomo di neve. Credeva infatti che fosse ancora il sole che si mostrava di nuovo.
«Gli ho tolto l’abitudine di fissarmi, ora se ne sta lì e illumina appena perché io possa vedermi. Se solo sapessi muovermi mi sposterei da un’altra parte. Vorrei tanto cambiare posto! Se potessi, scivolerei sul ghiaccio come hanno fatto i ragazzi, ma non sono capace di correre.»
«Via, via!» abbaiò il vecchio cane alla catena. Era un po’ rauco, lo era diventato da quando non stava più in casa e non dormiva più vicino alla stufa. «Il sole ti insegnerà senz’altro a correre! L’ho già visto con il tuo predecessore dell’anno scorso, e con quello dell’anno prima. Via, via! e tutti ve ne andrete!»
«Non ti capisco, amico!» disse l’uomo di neve. «Quello lassù mi deve insegnare a correre?» e intendeva la luna. «È corso via infatti, quando l’ho fissato prima, ma ora spunta fuori da un’altra parte!»
«Tu non sai nulla» gli rispose il cane alla catena «ma sei appena stato fatto! Quella che tu vedi si chiama luna, quello che se n’è andato era il sole. Tornerà domani e ti insegnerà a scorrere nel fosso. Tra poco cambierà il tempo, lo sento dalla zampa posteriore che mi fa male. Cambierà il tempo.»
«Non lo capisco» commentò l’uomo di neve «ma ho la sensazione che stia dicendo qualcosa di spiacevole. E quello che mi fissava e se ne è andato si chiama sole, non deve essermi amico neppure lui, lo sento.» «Via! Via!» abbaiò il cane alla catena, poi girò tre volte su se stesso e si ritirò nella cuccia per dormire.
Il tempo cambiò davvero. Una nebbia fitta e umida si stese durante la mattinata su tutto il territorio, all’alba cominciò a soffiare il vento, un vento gelato che fece spuntare dappertutto il ghiaccio, ma che splendore quando comparve il sole! Tutti gli alberi e i cespugli erano ricoperti di ghiaccio, era come vedere un intero bosco di coralli bianchi, come se tutti i rami fossero ricoperti di lucenti fiori bianchi. Quei rami sottili che d’estate non si possono vedere a causa delle molte foglie si mostravano ora uno per uno, sembravano un ricamo, e tutto era bianco splendente come se da ogni ramo sgorgasse un bianco splendore. La betulla si piegava al vento, c’era vita in lei, come in tutti gli alberi nel periodo estivo, era uno splendore senza fine.
Quando brillò il sole ogni cosa scintillò, come se tutto fosse stato ricoperto di una polvere lucente, e sulla distesa di neve che ricopriva la terra luccicavano grandi diamanti, o meglio si poteva credere che bruciassero infiniti lumini ancora più bianchi della bianca neve.
«È una meraviglia incredibile!» disse una fanciulla che con un giovane attraversava il giardino, poi si fermò proprio vicino all’uomo di neve e si mise a guardare quei meravigliosi alberi «In estate non c’è una vista così bella!» disse, e le brillavano gli occhi.
«E non abbiamo neppure un tipo come questo qui!» disse il giovane indicando l’uomo di neve.
«È proprio bello!»La fanciulla rise, fece una riverenza all’uomo di neve e ballò col suo amico sulla neve che scricchiolò sotto di loro, come fosse stata di celluloide.
«Chi erano quei due?» chiese l’uomo di neve al cane alla catena. «Tu vivi da più tempo qui nel cortile, li conosci?»
«Certo!» disse il cane alla catena. «Lei mi ha accarezzato, e lui mi ha dato un osso. Così non li mordo.»
«Ma che cosa rappresentano qui?» chiese l’uomo di neve.
«Innamo-o-r-a-t-i» disse il cane. «Si trasferiranno in un canile e rosicchieranno insieme le ossa. Via! Via!»
«E due come loro sono importanti quanto te e me?» chiese l’uomo di neve.
«Appartengono alla classe dei padroni» disse il cane. «Non si sa proprio nulla quando si è nati ieri, lo vedo bene guardando te! Io invece sono vecchio e ho una grande conoscenza delle cose, conosco tutti qui nel cortile! E ho conosciuto un tempo in cui non stavo qui al freddo e alla catena. Via! Via!»
«Il freddo è bello» disse l’uomo di neve. «Racconta, racconta! ma non devi agitare la catena perché mi fa scricchiolare.»
«Via! Via!» abbaiò il cane. «Io ero un cucciolo; piccolo e grazioso, così dicevano, quando stavo su una sedia di velluto o mi prendeva in grembo il padrone più importante; mi baciavano sulla gola e mi asciugavano le zampette con un fazzoletto ricamato. Mi chiamavamo “Bellissimo”, “Tesoruccio”, ma poi divenni troppo grande per loro, allora mi diedero alla governante. Passai così al pianterreno. Lo puoi vedere da dove ti trovi, puoi vedere in quella cameretta dove io sono stato padrone, quando ero dalla governante. Naturalmente era più piccola di quella di sopra, ma era molto più piacevole: non venivo stuzzicato e trascinato dappertutto dai bambini, come accadeva di sopra; e avevo del buon cibo, proprio come prima, anzi di più! avevo il mio cuscino e poi c’era una stufa che in questa stagione è la cosa più bella del mondo! Mi raggomitolavo lì sotto e era come se sparissi. Oh, quella stufa me la sogno ancora. Via! Via!»
«È bella la stufa?» chiese l’uomo di neve. «Mi assomiglia?»
«È proprio il tuo contrario! È nera come il carbone, ha un lungo collo e uno sportelletto d’ottone; divora pezzetti di legno, così le esce il fuoco dalla bocca. Bisogna mettersi proprio di fianco, vicini vicini, o anche sotto, che meraviglia! Tu dovresti riuscire a vederla attraverso la finestra!»
L’uomo di neve guardò e vide veramente un grande oggetto nero, lucido, con una porticina di ottone, e il pavimento intorno tutto illuminato. L’uomo di neve si sentì molto strano, aveva una sensazione che non riusciva a spiegarsi, sentiva qualche cosa che non conosceva, ma che tutti conoscono se non sono fatti di neve.
«Perché l’hai lasciata?» chiese l’uomo di neve: sentiva che doveva essere una creatura femminile. «Come hai potuto lasciare un posto simile?»
«Ci fui costretto» spiegò il cane alla catena. «Mi cacciarono fuori e mi misero alla catena. Avevo morso il padrone più giovane alla gamba, perché aveva dato un calcio a un osso che stavo rosicchiando. Osso per osso, pensai io! Ma loro se la presero molto e da allora mi trovo alla catena e ho perso la mia bella voce: senti come sono rauco! Via! Via! E così finì la bella vita per me.»
L’uomo di neve non ascoltava più, fissava continuamente la stanza della governante dove si trovava la stufa sulle quattro gambe di ferro: sembrava alta quanto lui.
«Come scricchiolo!» disse. «Riuscirò mai a entrare? Sarebbe un desiderio innocente e tutti i nostri desideri innocenti dovrebbero venire esauditi. È la mia massima aspirazione, il mio unico desiderio, e sarebbe quasi ingiusto se non venisse esaudito. Devo andare lì dentro, devo arrivare fino a lei, anche se devo rompere il vetro.»
«Non entrerai mai!» rispose il cane alla catena. «E se mai arrivassi alla stufa, allora te ne andresti, hai capito? te ne andresti.»
«È come se fossi già andato!» disse l’uomo di neve. «Mi viene da vomitare.»
Per tutto il giorno l’uomo di neve guardò in quella stanza; nella penombra il locale sembrava ancora più bello, dalla stufa proveniva una luce così tenue che neppure la luna o il sole sapevano eguagliare, un bagliore tipico di una stufa quando c’è qualcosa dentro. Se aprivano la porta, allora usciva una fiammata, era una sua abitudine; questa fece diventare il bianco volto dell’uomo di neve tutto rosso, e lo illuminò fino al petto.
«Non resisto più!» disse. «Come le dona tirar fuori la lingua!»
La notte fu molto lunga, ma non per l’uomo di neve che si era abbandonato ai suoi bellissimi pensieri, e questi, gelando, scricchiolavano. Al mattino le finestre del pianterreno erano gelate, ricoperte dei più bei fiori di ghiaccio che un uomo di neve possa desiderare, ma gli toglievano la vista della stufa. Il ghiaccio dei vetri non voleva sciogliersi, così lui non riusciva a vederla. Si sentiva uno scricchiolio, un crepitio, era proprio un tempo da gelo che doveva divertire un uomo di neve, ma lui non era per niente divertito: avrebbe potuto sentirsi felicissimo ma non lo era, perché aveva nostalgia della stufa.
«È una pessima malattia per un uomo di neve!» commentò il cane alla catena. «Ho sofferto anch’io di quella malattia, ma ormai l’ho superata. Via! Via! Ora cambierà il tempo.»
E infatti il vento cambiò, e sciolse la neve. Venne il caldo, e l’uomo di neve dimagrì. Non disse nulla, non scricchiolò, e questo era proprio il segno della fine. Una mattina crollò. Nel punto in cui si trovava rimase infilzato qualcosa che assomigliava a un manico di scopa: i ragazzi ce lo avevano costruito intorno.
«Adesso capisco quella sua nostalgia!» disse il cane alla catena. «L’uomo di neve aveva un raschiatoio della stufa in corpo; è quello che lo turbava, ma adesso tutto è finito. Via! Via!»
E ormai anche l’inverno era quasi finito.
«Via! Via!» abbaiava il cane alla catena, ma le bambine in giardino cantavano:

Affrettati, mughetto, bello e fresco,
getta i rametti, o salice.
Venite, cuculi, allodole, cantate!
C’è già primavera alla fine di febbraio!
Io canto con voi, cuculi, cucù!
Vieni, caro sole, esci anche tu!

E nessuno pensò più all’uomo di neve.

Barbablù

C’era un a volta un uomo tanto ricco quando brutto.
Egli possedeva palazzi in città, ville in campagna, scuderie piene di cavalli, forzieri colmi di monete d’oro, ma aveva la barba blu, una barba che gli dava un aspetto così terribile che tutte le ragazze scappavano non appena lo vedevano.
Aveva già chiesto la mano di parecchie fanciulle, poiché desiderava sposarsi; ma tutte lo avevano rifiutato.
Tuttavia egli non si stancava e continuava a cercare moglie.
Nella sua stessa città viveva una gran dama che aveva due figlie molto belle, e Barbablù ( tutti lo chiamavano così ) ne chiese una in sposa: non gli importava se la maggiore o la minore.
La gran dama esitò: ella aveva anche due figli maschi ai quali avrebbe voluto preparare l’avvenire; ma, rimasta vedova, era caduta in povertà.
Un matrimonio con un uomo ricco come Barbablù sarebbe stato la fortuna per tutti…Non volendo forzare la volontà delle sue ragazze, le lasciò libere di accettare o no.
Ma nessuna delle due si sentiva il coraggio di compiere quel passo. Tanto più che, si diceva, Barbablù era già stato sposato altre volte, ma non si sapeva dove le sue mogli fossero andate a finire.
Allora Barbablù incominciò a coprire le due ragazze di regali: fiori,gioielli meravigliosi, le invitò insieme alla madre in una sua villa dove, per una settimana, si susseguirono feste da ballo, battute di caccia, banchetti…Infine la figlia minore concluse che quell’uomo non aveva poi la barba tanto blu…e in quattro e quattr’otto decise di sposarlo.
Le nozze furono celebrate con grande sfarzo, e la sposina si sentì molto orgogliosa quando poté mostrare alle sue amiche il meraviglioso palazzo dove abitava.
Un giorno Barbablù annunciò a sua moglie che doveva assentarsi da casa per alcuni affari. Tuttavia desiderava che nel frattempo lei si divertisse con le sue amiche, e le invitasse a palazzo:
– Ti lascio le chiavi di tutte le porte, di tutti i forzieri, di tutti gli armadi – disse togliendo di tasca un tintinnante mazzo di chiavi. – Adopera come vuoi il servizio di vasellami e le posate d’oro e d’argento; fruga nei ripostigli, saccheggia la dispensa. Ma per nessun motivo al mondo dovrai aprire la porticina che si trova in fondo alla galleria e che si apre con questa chiavetta d’oro. Guai a te se entrerai in quello stanzino: dovrai pentirtene amaramente!
Così dicendo, consegnò il mazzo di chiavi alla moglie.
Questa ebbe subito una grande curiosità di vedere che cosa si nascondesse nel misterioso stanzino.
Tuttavia promise di essere ubbidiente e di adoperare tutte le chiavi meno quella d’oro.
Barbablù salì in carrozza e partì; subito dopo la ragazza invitò sua sorella Anna e tutte le sue amiche ad andare a farle visita.
Invitò anche i due fratelli, ma questi promisero che sarebbero venuti soltanto il giorno dopo.
Il corteo delle ragazze, con la sposina in testa, percosse le sale e le gallerie del sontuoso palazzo e di continuo risuonavano degli ” Oh ” di meraviglia davanti alle ricchezze che venivano alla luce: tazze di diaspro e di cristallo, piatti d’oro e d’argento…Finalmente non restò più da visitare che lo stanzino in fondo alla galleria, e la sposina esitò parecchio, stingendo fra le dita la chiave d’oro…poi pensò che era meglio lasciar partire le amiche; rimasta sola, avrebbe potuto soddisfare la curiosità senza che nessuno se ne accorgesse.
Infatti, dopo i convenevoli. La sorella Anna andò a dormire al piano di sopra, e la sposina poté dirigersi senza far rumore verso la stanza misteriosa.
Infilò la chiave nella toppa, la girò dolcemente, entrò, ma…orrore!
Un grosso cespo ancora insanguinato e una scure affilata gettata sulla paglia stavano a dimostrare che in quello stanzino si entrava soltanto per morire…Ora sul ceppo ballavano i topi, ma in un angolo giacevano diversi corpi di donne: tutte con la testa tagliata.
Le mogli scomparse di Barbablù…Inorridita, la sposina si portò le mani agli occhi per non vedere più; ma in quel gesto la chiavetta le sfuggi di mano e cadde in una pozza di sangue.
La raccolse e fuggì via, dopo aver richiuso accuratamente la porta; poi si rifugiò in camera sua tremando da capo a piedi.
Guardò la chiavicina maledetta e vide che era sporca di sangue.
Subito cercò di asciugarla e di pulirla, ma non vi riuscì.
La chiave era fatata, e le macchie di sangue cancellate da una parte, ricomparivano da un’altra. Atterrita, pensava di fuggire dal palazzo, ma proprio quella notte Barbablù vi fece ritorno.
La sposina simulò di accoglierlo lietamente, ma in cuor suo si sentiva morire per la paura.
Barbablù non chiese la restituzione delle chiavi e andò a dormire senza domande, ma al mattino dopo, assumendo un piglio che non prometteva niente di buono, chiese:
-Hai adoperato la chiave che ti avevo proibito di usare? Vuoi restituirmela, ora?
La ragazza porse la chiave con mani tremanti, e Barbablù vide subito che era macchiata.
– Perché c’è del sangue su questa chiave?
– Proprio non lo so…
– Ebbene, lo so io! – gridò ferocemente l’uomo. – Tu mi hai disobbedito e sei entrata nello stanzino. Perciò vi ritornerai, e questa volta per sempre, perché io ti taglierò la testa e ti metterò a fianco delle altre donne che furono curiose come te.
La povera ragazza a quelle parole divenne pallida come una morta e si buttò in ginocchio:
– Perdonatemi! – singhiozzo. – Io non lo dirò a nessuno ciò che ho veduto.
– Tutte le donne sono pettegole così come sono curiose; solo quando ti avrò tagliato la testa, sarò veramente sicuro che non parlerai. – Vi prometto che vi obbedirò sempre! Vi prometto che non dirò una sola parola.
Barbablù ridendo sgangheratamente, disse:
– Ti ho veduto alla prova! E adesso sono stanco di ciarle: vieni con me perché la tua ultima ora è suonata.
Fece per afferrare la giovane per i capelli, ma ella si ritrasse:
– Non potete farmi morire senza che io abbia prima raccomandato la mia anima a Dio. Lasciatemi sola, affinché io possa pregare in pace.
Barbablù esitò, ma sebbene fosse un uomo crudele e feroce, non osò opporre un rifiuto.
– Va bene, – replicò. – Ti concedo un quarto d’ora di tempo: non di più. Io, intanto, andrò ad affilare la scure.
Si allontanò verso il terribile stanzino, e la povera moglie corse a svegliare la sorella Anna.
– Mia cara sorella – supplicò – sali sulla torre e guarda se vedi i nostri fratelli. Dovrebbero arrivare questa mattina. Se li vedi fa cenno che si affettino, per carità.
La sorella Anna corse subito alla finestra della torre, mentre la sposina aspettava col cuore in gola.
Nel frattempo Barbablù, che aveva finito di affilare la scure, incominciò a gridare.
– Il quarto d’ora è ormai trascorso. Affrettati a scendere: altrimenti salgo io!
– Ancora un attimo – rispose l’infelice, e chiese con ansia:
– Cara sorella Anna, non vedi nessuno?
– Nessuno – rispondeva Anna. – Vedo soltanto i ruscelli luccicare e l’erba verdeggiante.
– Hai finito si o no? Sono stanco di aspettare. Se non scendi tu,salirò io. Urlava intanto Barbablù. – Un momento, un solo momento – rispondeva la sposina piangendo. E ancora domandava :
-Sorella Anna, vedi nessuno?
– Vedo un nuvolose di polvere…Ma si tratta di pecore che vanno al pascolo.
In quel momento si udirono i passi pesanti di Barbablù che saliva le scale.
Egli spalancò la porta con un calcio, mentre la sposa chiedeva un’ultima volta:
– Sorella Anna, vedi nessuno?
– Vedo…due cavalieri…Si, si, sono proprio i nostri fratelli!
Anna si strappo la sciarpa dalle spalle e incominciò da agitarla dalla finestra facendo cenno ai due giovani di affrettarsi.
Essi irruppero nel cortile e salirono i gradini a quattro a quattro…
Appena in tempo, perché Barbablù aveva afferrato la sposa per i capelli e stava trascinandola verso l’orribile stanzino.
I giovani gli balzarono addosso con le spade sguainate, e un attimo dopo egli giaceva a terra morto, mentre la sorella con le mani ancora giunte sul cuore, non sapeva se ridere o piangere.
Poi quel terribile spavento passò, e anche Barbablù fu dimenticato, come succede sempre ai cattivi.
La moglie ereditò tutti i suoi beni, e con quelli poté regalare una dote alla sorella Anna che sposò un gentiluomo buono e ricco; aiutò i due bravi fratelli a crearsi un avvenire; Infine anche lei scelse un onesto e affettuoso marito che la consolò di tutti i dispiaceri provati con Barbablù.

L’utilità di un sasso

C’era una volta. in un inverno freddissimo, un uccellino che volava su un campo innevato.
Avendo le zampette piene di neve cercava un posto su cui appoggiarsi.
Dall’alto sembrava che tutto fosse ricoperto di neve.
Scendendo più in basso, però, si accorse che c’era una pietra che ne era priva.
Allora l’uccellino si avvicinò e chiese al sasso: “Scusami, sono infreddolito e ho le zampette piene di neve, posso poggiarmi su di te per qualche istante?”
Il sasso lo guardò e subito disse “Ma certo!”.
L’uccellino si posò, si asciugò le zampette e dopo qualche minuto riprese il viaggio.
Nel ripartire disse alla pietra: “Grazie, sei stato veramente gentile, eri l’unico su cui potevo poggiarmi. Ti sarò sempre debitore”.
Ma il sasso rispose: “Grazie a te! Ora non mi chiederò più che ci sto a fare”.

I due viandanti e l’orso

Era sera e due viandanti attraversavano un bosco. Stava facendosi buio e il primo viandante disse: “Questo posto non mi piace troppo. Per fortuna siamo in due, siamo amici, e se restiamo uniti nessuno potrà farci del male”.
In quel momento apparve l’orso.
Il primo viandante gettò un grido, e senza più pensare all’amico si arrampicò sull’albero. Il secondo viandante, trovatosi improvvisamente solo e comprendendo di non poter far nulla contro l’orso, si buttò lungo disteso a terra.
L’orso si avvicinò dondolandosi al secondo viandante, lo annusò, strofinò il muso contro la sua testa, la sua bocca, il suo naso, soffiando e aspirando. L’uomo rimase perfettamente immobile: s’era irrigidito tutto e tratteneva il respiro. Trascorso qualche minuto l’orso si convinse che l’uomo era morto; diede un grugnito cavernoso e si allontanò.
Andatosene l’orso, il primo viandante scese dall’albero.
“E allora?” disse ridendo “ho visto che l’orso accostava la bocca al tuo orecchio. Che cosa ti ha detto?”
“Mi ha detto la verità” rispose il secondo viandante “cioé di non prestare fede a chi ti dice che sarà al tuo fianco, e poi ti pianta in asso non appena sente puzza di bruciato”.

La piccola fiammiferaia

Era l’ultimo giorno dell’anno: faceva molto freddo e cominciava a nevicare. Una povera bambina camminava per la strada con la testa e i piedi nudi. Quando era uscita di casa, aveva ai piedi le pantofole che, però, non aveva potuto tenere per molto tempo, essendo troppo grandi per lei e già troppo usate dalla madre negli anni precedenti. Le pantofole erano così sformate che la bambina le aveva perse attraversando di corsa una strada: una era caduta in un canaletto di scolo dell’acqua, l’altra era stata portata via da un monello. La bambina camminava con i piedi lividi dal freddo. Teneva nel suo vecchio grembiule un gran numero di fiammiferi che non era riuscita a vendere a nessuno perché le strade erano deserte. Per la piccola venditrice era stata una brutta giornata e le sue tasche erano vuote. La bambina aveva molta fame e molto freddo. Sui suoi lunghi capelli biondi cadevano i fiocchi di neve mentre tutte le finestre erano illuminate e i profumi degli arrosti si diffondevano nella strada; era l’ultimo giorno dell’anno e lei non pensava ad altro! Si sedette in un angolo, fra due case. Il freddo l’assaliva sempre più. Non osava ritornarsene a casa senza un soldo, perché il padre l’avrebbe picchiata. Per riscaldarsi le dita congelate, prese un fiammifero dalla scatola e crac! Lo strofinò contro il muro. Si accese una fiamma calda e brillante. Si accese una luce bizzarra, alla bambina sembrò di vedere una stufa di rame luccicante nella quale bruciavano alcuni ceppi. Avvicinò i suoi piedini al fuoco… ma la fiamma si spense e la stufa scomparve. La bambina accese un secondo fiammifero: questa volta la luce fu così intensa che poté immaginare nella casa vicina una tavola ricoperta da una bianca tovaglia sulla quale erano sistemati piatti deliziosi, decorati graziosamente. Un’oca arrosto le strizzò l’occhio e subito si diresse verso di lei. La bambina le tese le mani… ma la visione scomparve quando si spense il fiammifero. Giunse così la notte. “Ancora uno!” disse la bambina. Crac! Appena acceso, s’immaginò di essere vicina ad un albero di Natale. Era ancora più bello di quello che aveva visto l’anno prima nella vetrina di un negozio. Mille candeline brillavano sui suoi rami, illuminando giocattoli meravigliosi. Volle afferrarli… il fiammifero si spense… le fiammelle sembrarono salire in cielo… ma in realtà erano le stelle. Una di loro cadde, tracciando una lunga scia nella notte. La bambina pensò allora alla nonna, che amava tanto, ma che era morta. La vecchia nonna le aveva detto spesso: Quando cade una stella, c’ è un’anima che sale in cielo”. La bambina prese un’altro fiammifero e lo strofinò sul muro: nella luce le sembrò di vedere la nonna con un lungo grembiule sulla gonna e uno scialle frangiato sulle spalle. Le sorrise con dolcezza.
– Nonna! – gridò la bambina tendendole le braccia, – portami con te! So che quando il fiammifero si spegnerà anche tu sparirai come la stufa di rame, l’oca arrostita e il bell’albero di Natale.
La bambina allora accese rapidamente i fiammiferi di un’altra scatoletta, uno dopo l’altro, perché voleva continuare a vedere la nonna. I fiammiferi diffusero una luce più intensa di quella del giorno:
“Vieni!” disse la nonna, prendendo la bambina fra le braccia e volarono via insieme nel gran bagliore. Erano così leggere che arrivarono velocemente in Paradiso; là dove non fa freddo e non si soffre la fame! Al mattino del primo giorno dell’anno nuovo, i primi passanti scoprirono il corpicino senza vita della bambina. Pensarono che la piccola avesse voluto riscaldarsi con la debole fiamma dei fiammiferi le cui scatole erano per terra. Non potevano sapere che la nonna era venuta a cercarla per portarla in cielo con lei. Nessuno di loro era degno di conoscere un simile segreto!

Il cervo alla fonte

Un cervo, dopo aver bevuto ad una fonte, stette ad ammirare la sua immagine nello specchio dell’acqua. Lodava in estasi le sue corna eleganti e disprezzava le gambe, troppo gracili e sottili.
Spaventato improvvisamente dalle grida di caccia, prese a fuggire per i campi e con una rapida corsa riuscì a disperdere i cani.
Ecco una selva accogliere il fuggiasco. Ma le corna gli si impigliano nei rami, i cani gli piombano addosso e lo straziano a forza di morsi.
Allora, in punto di morte, si dice che così abbia parlato: “Oh me infelice! Soltanto ora capisco quanto sia utile ciò che disprezzavo e quali disgrazie mi abbiano procurato le cose che lodavo”.
Questa favola dimostra che spesso possono essere più utili le cose disprezzate di quelle lodate.

Il pescatore

Sul molo di un piccolo villaggio messicano, un turista americano si ferma e si avvicina ad una piccola imbarcazione di un pescatore del posto.
Si complimenta con il pescatore per la qualità del pesce e gli chiede quanto tempo avesse impiegato per pescarlo. Il pescatore risponde: ‘Non ho impiegato molto tempo’ e il turista: ‘Ma allora, perchè non è stato di più, per pescarne di più?’
Il messicano gli spiega che quella esigua quantità era esattamente ciò di cui aveva bisogno per soddisfare le esigenze della sua famiglia. Il turista chiese: ‘Ma come impiega il resto del suo tempo?’ E il pescatore: ‘Dormo fino a tardi, pesco un po’, gioco con i miei bimbi e faccio la siesta con mia moglie. La sera vado al villaggio, ritrovo gli amici, beviamo insieme qualcosa, suono la chitarra, canto qualche canzone, e via così, trascorro appieno la vita.’
Allorchè il turista fece: ‘La interrompo subito, sa sono laureato ad Harvard, e posso darle utili suggerimenti su come migliorare. Prima di tutto dovrebbe pescare più a lungo, ogni giorno di più. Così logicamente pescherebbe di più. Il pesce in più lo potrebbe vendere e comprarsi una barca più grossa. Barca più grossa significa più pesce, più pesce significa più soldi, più soldi più barche… Potrà permettersi un’intera flotta! Quindi invece di vendere il pesce all’uomo medio, potrà negoziare direttamente con le industrie della lavorazione del pesce, potrà a suo tempo aprirsene una sua. In seguito potrà lasciare il villaggio e trasferirsi a Mexico City o a Los Angeles o magari addirittura a New York! Da lì potrà dirigere un’enorme impresa!’
Il pescatore lo interruppe: ‘Ma per raggiungere questi obiettivi quanto tempo mi ci vorrebbe?’
E il turista: ’20, 25 anni forse’ quindi il pescatore chiese: ‘….e dopo?’
Turista: ‘ Ah dopo, e qui viene il bello, quando il suoi affari avranno raggiunto volumi grandiosi, potrà vendere le azioni e guadagnare miliardi!’
E il pescatore:’miliardi? e poi?’
Turista: ‘Eppoi finalmente potrà ritirarsi dagli affari e andare in un piccolo villaggio vicino alla costa, dormire fino a tardi, giocare con i suoi bimbi, pescare un po’ di pesce, fare la siesta, passare le serate con gli amici bevendo qualcosa, suonando la chitarra e trascorrere appieno la vita’

Vivi come credi

C’era una volta una coppia con un figlio di 12 anni e un asino.
Decisero di viaggiare, di lavorare e di conoscere il mondo.
Così partirono tutti e tre con il loro asino.
Arrivati nel primo paese, la gente commentava: “guardate quel ragazzo quanto è maleducato…lui sull’asino e i poveri genitori, già anziani, che lo tirano”.
Allora la moglie disse a suo marito: “non permettiamo che la gente parli male di nostro figlio.”
Il marito lo fece scendere e salì sull’asino.
Arrivati al secondo paese, la gente mormorava: “guardate che svergognato quel tipo…lascia che il ragazzo e la povera moglie tirino l’asino, mentre lui vi sta comodamente in groppa”.
Allora, presero la decisione di far salire la moglie, mentre padre e figlio tenevano le redini per tirare l’asino.
Arrivati al terzo paese, la gente commentava: “pover’uomo! dopo aver lavorato tutto il giorno, lascia che la moglie salga sull’asino.
E povero figlio, chissà cosa gli spetta, con una madre del genere!
Allora si misero d’accordo e decisero di sedersi tutti e tre sull’asino per cominciare nuovamente il pellegrinaggio.
Arrivati al paese successivo, ascoltarono cosa diceva la gente del paese: sono delle bestie, più bestie dell’asino che li porta.
Gli spaccheranno la schiena!
Alla fine, decisero di scendere tutti e camminare insieme all’asino ma, passando per il paese seguente, non potevano credere a ciò che le voci dicevano ridendo: “guarda quei tre idioti: camminano, anche se hanno un asino che potrebbe portarli!”

Conclusione: ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa andare bene come sei.
Quindi: vivi come credi. fai cosa ti dice il cuore…ciò che vuoi…una vita è un’opera di teatro che non ha prove iniziali.
Quindi: canta, ridi, balla, ama…e vivi intensamente ogni momento della tua vita…prima che cali il sipario e l’opera finisca senza applausi.

L’alcione

L’alcione è un uccello amante della solitudine, che vive sempre sul mare e fa, dicono, il suo nido sugli scogli vicini alla costa, per sfuggire alla caccia degli uomini.
Un giorno un alcione che stava per deporre le uova, posandosi su di un promontorio, scorse una roccia a picco sul mare, e andò a farci il nido. Ma una volta, mentre esso era fuori in cerca di cibo, accadde che il mare, gonfiato da soffio impetuoso del vento, si sollevò fino all’altezza del nido e lo inondò, affogando i piccoli. Quando, al suo ritorno, l’alcione vide quel che era accaduto: “Me misero”, esclamò, “per guardarmi dalle insidie della terra, mi rifugiai sul mare; e il mare mi si è dimostrato ben più infido di quella”.

Questo capita anche a certi uomini, che, mentre si guardano dai loro nemici, senz’avvedersene, vanno a cadere in mezzo ad amici che sono ben peggio di quelli.

Il gallo in lettiga

Il gallo aveva per portantin dei gatti selvatici; e si faceva portare in giro tutto borioso. La volpe lo vide: “Guardati dalle sorprese,” gli disse: “te n’avverto! Se tu esamini bene i musi di costoro, ti convincerai che portan la preda e non il carico”.
E infatti quando la mala compagnia cominciò ad aver fame sbranò il padrone e se ne distribuì le parti.

La bambola di sale

Una bambola di sale voleva ad ogni costo il mare.
Era una bambola di sale, ma non sapeva che cosa fosse il mare. Un giorno decise di partire.
Era l’ unico modo per soddisfare la sua esigenza.
Dopo un’ interminabile pellegrinaggio attraverso territori aridi e desolati, giunse in riva al mare e scoprì qualcosa di immenso e affascinante e misterioso nello stesso tempo. Era l’ alba, il sole cominciava a sfiorare l’ acqua accendendo timidi riflessi, e la bambola non riusciva a capire.
Rimase lì impalata a lungo, solidamente piantata al suolo, la bocca aperta.
Dinanzi a lei, quell’ estensione seducente. Sì decise. Domandò al mare :
– Dimmi chi sei ?
– Sono il mare.
– E che cos’è il mare ?
– Sono io !
– Non riesco a capire, ma lo vorrei tanto. Spiegami che cosa posso fare.
– E’ semplicissimo: toccami.
Allora la bambola si fece coraggio. Mosse un passo e avanzò verso l’ acqua.
Dopo parecchie esitazioni, sfiorò quella massa con un piede.
Nè ricavò una strana sensazione.
Eppure aveva l’ impressione di cominciare a comprendere qualcosa.
Allorchè ritrasse la gamba, si accorse che le dita dei piedi erano sparite.
Nè risultò spaventata e protestò :
– Cattivo ! Che cosa mi hai fatto ?
Dove sono finite le mie dita ?
Replicò imperturbabile il mare:
– Perchè ti lamenti ? Semplicemente hai
offerto qualche cosa per poter capire. Non
era quello che chiedevi ? ….
L’ altra piatì:
– Sì veramente, non pensavo…, ma…
Stette a riflettere un po’. Poi avanzò decisamente nell’ acqua. E questa, progressivamente, la avvolgeva, le staccava qualcosa, dolorosamente. Ad ogni passo, la bambola perdeva qualche frammento. Ma più avanzava, più si sentiva impoverita di
una parte di sè, e più aveva la sensazione di capire meglio. Ma non riusciva ancora a dire cosa fosse il mare.
Cavò fuori la solita domanda:
– Che cosa è il mare ?
Un’ ultima ondata inghiottì ciò che restava di lei.
E proprio nell’ istante in cui scompariva, perduta nell’ onda che la travolgeva e la portava chissà dove, la bambola esclamò:
– Sono io !