Il pupazzo di neve

«Fa così freddo che scricchiolo tutto» disse l’uomo di neve. «Il vento, quando morde, fa proprio resuscitare! Come mi fissa quello là!» e intendeva il sole, che stava per tramontare. «Ma non mi farà chiudere gli occhi, riesco a tenere le tegole ben aperte.»
Infatti i suoi occhi erano fatti con due pezzi di tegola di forma triangolare. La bocca invece era un vecchio rastrello rotto, quindi aveva anche i denti.Era nato tra gli evviva dei ragazzi, salutato dal suono di campanelli e dagli schiocchi di frusta delle slitte.Il sole tramontò e spuntò la luna piena, rotonda e grande, bellissima e diafana nel cielo azzurro.
«Eccolo che arriva dall’altra parte!» disse l’uomo di neve. Credeva infatti che fosse ancora il sole che si mostrava di nuovo.
«Gli ho tolto l’abitudine di fissarmi, ora se ne sta lì e illumina appena perché io possa vedermi. Se solo sapessi muovermi mi sposterei da un’altra parte. Vorrei tanto cambiare posto! Se potessi, scivolerei sul ghiaccio come hanno fatto i ragazzi, ma non sono capace di correre.»
«Via, via!» abbaiò il vecchio cane alla catena. Era un po’ rauco, lo era diventato da quando non stava più in casa e non dormiva più vicino alla stufa. «Il sole ti insegnerà senz’altro a correre! L’ho già visto con il tuo predecessore dell’anno scorso, e con quello dell’anno prima. Via, via! e tutti ve ne andrete!»
«Non ti capisco, amico!» disse l’uomo di neve. «Quello lassù mi deve insegnare a correre?» e intendeva la luna. «È corso via infatti, quando l’ho fissato prima, ma ora spunta fuori da un’altra parte!»
«Tu non sai nulla» gli rispose il cane alla catena «ma sei appena stato fatto! Quella che tu vedi si chiama luna, quello che se n’è andato era il sole. Tornerà domani e ti insegnerà a scorrere nel fosso. Tra poco cambierà il tempo, lo sento dalla zampa posteriore che mi fa male. Cambierà il tempo.»
«Non lo capisco» commentò l’uomo di neve «ma ho la sensazione che stia dicendo qualcosa di spiacevole. E quello che mi fissava e se ne è andato si chiama sole, non deve essermi amico neppure lui, lo sento.» «Via! Via!» abbaiò il cane alla catena, poi girò tre volte su se stesso e si ritirò nella cuccia per dormire.
Il tempo cambiò davvero. Una nebbia fitta e umida si stese durante la mattinata su tutto il territorio, all’alba cominciò a soffiare il vento, un vento gelato che fece spuntare dappertutto il ghiaccio, ma che splendore quando comparve il sole! Tutti gli alberi e i cespugli erano ricoperti di ghiaccio, era come vedere un intero bosco di coralli bianchi, come se tutti i rami fossero ricoperti di lucenti fiori bianchi. Quei rami sottili che d’estate non si possono vedere a causa delle molte foglie si mostravano ora uno per uno, sembravano un ricamo, e tutto era bianco splendente come se da ogni ramo sgorgasse un bianco splendore. La betulla si piegava al vento, c’era vita in lei, come in tutti gli alberi nel periodo estivo, era uno splendore senza fine.
Quando brillò il sole ogni cosa scintillò, come se tutto fosse stato ricoperto di una polvere lucente, e sulla distesa di neve che ricopriva la terra luccicavano grandi diamanti, o meglio si poteva credere che bruciassero infiniti lumini ancora più bianchi della bianca neve.
«È una meraviglia incredibile!» disse una fanciulla che con un giovane attraversava il giardino, poi si fermò proprio vicino all’uomo di neve e si mise a guardare quei meravigliosi alberi «In estate non c’è una vista così bella!» disse, e le brillavano gli occhi.
«E non abbiamo neppure un tipo come questo qui!» disse il giovane indicando l’uomo di neve.
«È proprio bello!»La fanciulla rise, fece una riverenza all’uomo di neve e ballò col suo amico sulla neve che scricchiolò sotto di loro, come fosse stata di celluloide.
«Chi erano quei due?» chiese l’uomo di neve al cane alla catena. «Tu vivi da più tempo qui nel cortile, li conosci?»
«Certo!» disse il cane alla catena. «Lei mi ha accarezzato, e lui mi ha dato un osso. Così non li mordo.»
«Ma che cosa rappresentano qui?» chiese l’uomo di neve.
«Innamo-o-r-a-t-i» disse il cane. «Si trasferiranno in un canile e rosicchieranno insieme le ossa. Via! Via!»
«E due come loro sono importanti quanto te e me?» chiese l’uomo di neve.
«Appartengono alla classe dei padroni» disse il cane. «Non si sa proprio nulla quando si è nati ieri, lo vedo bene guardando te! Io invece sono vecchio e ho una grande conoscenza delle cose, conosco tutti qui nel cortile! E ho conosciuto un tempo in cui non stavo qui al freddo e alla catena. Via! Via!»
«Il freddo è bello» disse l’uomo di neve. «Racconta, racconta! ma non devi agitare la catena perché mi fa scricchiolare.»
«Via! Via!» abbaiò il cane. «Io ero un cucciolo; piccolo e grazioso, così dicevano, quando stavo su una sedia di velluto o mi prendeva in grembo il padrone più importante; mi baciavano sulla gola e mi asciugavano le zampette con un fazzoletto ricamato. Mi chiamavamo “Bellissimo”, “Tesoruccio”, ma poi divenni troppo grande per loro, allora mi diedero alla governante. Passai così al pianterreno. Lo puoi vedere da dove ti trovi, puoi vedere in quella cameretta dove io sono stato padrone, quando ero dalla governante. Naturalmente era più piccola di quella di sopra, ma era molto più piacevole: non venivo stuzzicato e trascinato dappertutto dai bambini, come accadeva di sopra; e avevo del buon cibo, proprio come prima, anzi di più! avevo il mio cuscino e poi c’era una stufa che in questa stagione è la cosa più bella del mondo! Mi raggomitolavo lì sotto e era come se sparissi. Oh, quella stufa me la sogno ancora. Via! Via!»
«È bella la stufa?» chiese l’uomo di neve. «Mi assomiglia?»
«È proprio il tuo contrario! È nera come il carbone, ha un lungo collo e uno sportelletto d’ottone; divora pezzetti di legno, così le esce il fuoco dalla bocca. Bisogna mettersi proprio di fianco, vicini vicini, o anche sotto, che meraviglia! Tu dovresti riuscire a vederla attraverso la finestra!»
L’uomo di neve guardò e vide veramente un grande oggetto nero, lucido, con una porticina di ottone, e il pavimento intorno tutto illuminato. L’uomo di neve si sentì molto strano, aveva una sensazione che non riusciva a spiegarsi, sentiva qualche cosa che non conosceva, ma che tutti conoscono se non sono fatti di neve.
«Perché l’hai lasciata?» chiese l’uomo di neve: sentiva che doveva essere una creatura femminile. «Come hai potuto lasciare un posto simile?»
«Ci fui costretto» spiegò il cane alla catena. «Mi cacciarono fuori e mi misero alla catena. Avevo morso il padrone più giovane alla gamba, perché aveva dato un calcio a un osso che stavo rosicchiando. Osso per osso, pensai io! Ma loro se la presero molto e da allora mi trovo alla catena e ho perso la mia bella voce: senti come sono rauco! Via! Via! E così finì la bella vita per me.»
L’uomo di neve non ascoltava più, fissava continuamente la stanza della governante dove si trovava la stufa sulle quattro gambe di ferro: sembrava alta quanto lui.
«Come scricchiolo!» disse. «Riuscirò mai a entrare? Sarebbe un desiderio innocente e tutti i nostri desideri innocenti dovrebbero venire esauditi. È la mia massima aspirazione, il mio unico desiderio, e sarebbe quasi ingiusto se non venisse esaudito. Devo andare lì dentro, devo arrivare fino a lei, anche se devo rompere il vetro.»
«Non entrerai mai!» rispose il cane alla catena. «E se mai arrivassi alla stufa, allora te ne andresti, hai capito? te ne andresti.»
«È come se fossi già andato!» disse l’uomo di neve. «Mi viene da vomitare.»
Per tutto il giorno l’uomo di neve guardò in quella stanza; nella penombra il locale sembrava ancora più bello, dalla stufa proveniva una luce così tenue che neppure la luna o il sole sapevano eguagliare, un bagliore tipico di una stufa quando c’è qualcosa dentro. Se aprivano la porta, allora usciva una fiammata, era una sua abitudine; questa fece diventare il bianco volto dell’uomo di neve tutto rosso, e lo illuminò fino al petto.
«Non resisto più!» disse. «Come le dona tirar fuori la lingua!»
La notte fu molto lunga, ma non per l’uomo di neve che si era abbandonato ai suoi bellissimi pensieri, e questi, gelando, scricchiolavano. Al mattino le finestre del pianterreno erano gelate, ricoperte dei più bei fiori di ghiaccio che un uomo di neve possa desiderare, ma gli toglievano la vista della stufa. Il ghiaccio dei vetri non voleva sciogliersi, così lui non riusciva a vederla. Si sentiva uno scricchiolio, un crepitio, era proprio un tempo da gelo che doveva divertire un uomo di neve, ma lui non era per niente divertito: avrebbe potuto sentirsi felicissimo ma non lo era, perché aveva nostalgia della stufa.
«È una pessima malattia per un uomo di neve!» commentò il cane alla catena. «Ho sofferto anch’io di quella malattia, ma ormai l’ho superata. Via! Via! Ora cambierà il tempo.»
E infatti il vento cambiò, e sciolse la neve. Venne il caldo, e l’uomo di neve dimagrì. Non disse nulla, non scricchiolò, e questo era proprio il segno della fine. Una mattina crollò. Nel punto in cui si trovava rimase infilzato qualcosa che assomigliava a un manico di scopa: i ragazzi ce lo avevano costruito intorno.
«Adesso capisco quella sua nostalgia!» disse il cane alla catena. «L’uomo di neve aveva un raschiatoio della stufa in corpo; è quello che lo turbava, ma adesso tutto è finito. Via! Via!»
E ormai anche l’inverno era quasi finito.
«Via! Via!» abbaiava il cane alla catena, ma le bambine in giardino cantavano:

Affrettati, mughetto, bello e fresco,
getta i rametti, o salice.
Venite, cuculi, allodole, cantate!
C’è già primavera alla fine di febbraio!
Io canto con voi, cuculi, cucù!
Vieni, caro sole, esci anche tu!

E nessuno pensò più all’uomo di neve.

La piccola fiammiferaia

Era l’ultimo giorno dell’anno: faceva molto freddo e cominciava a nevicare. Una povera bambina camminava per la strada con la testa e i piedi nudi. Quando era uscita di casa, aveva ai piedi le pantofole che, però, non aveva potuto tenere per molto tempo, essendo troppo grandi per lei e già troppo usate dalla madre negli anni precedenti. Le pantofole erano così sformate che la bambina le aveva perse attraversando di corsa una strada: una era caduta in un canaletto di scolo dell’acqua, l’altra era stata portata via da un monello. La bambina camminava con i piedi lividi dal freddo. Teneva nel suo vecchio grembiule un gran numero di fiammiferi che non era riuscita a vendere a nessuno perché le strade erano deserte. Per la piccola venditrice era stata una brutta giornata e le sue tasche erano vuote. La bambina aveva molta fame e molto freddo. Sui suoi lunghi capelli biondi cadevano i fiocchi di neve mentre tutte le finestre erano illuminate e i profumi degli arrosti si diffondevano nella strada; era l’ultimo giorno dell’anno e lei non pensava ad altro! Si sedette in un angolo, fra due case. Il freddo l’assaliva sempre più. Non osava ritornarsene a casa senza un soldo, perché il padre l’avrebbe picchiata. Per riscaldarsi le dita congelate, prese un fiammifero dalla scatola e crac! Lo strofinò contro il muro. Si accese una fiamma calda e brillante. Si accese una luce bizzarra, alla bambina sembrò di vedere una stufa di rame luccicante nella quale bruciavano alcuni ceppi. Avvicinò i suoi piedini al fuoco… ma la fiamma si spense e la stufa scomparve. La bambina accese un secondo fiammifero: questa volta la luce fu così intensa che poté immaginare nella casa vicina una tavola ricoperta da una bianca tovaglia sulla quale erano sistemati piatti deliziosi, decorati graziosamente. Un’oca arrosto le strizzò l’occhio e subito si diresse verso di lei. La bambina le tese le mani… ma la visione scomparve quando si spense il fiammifero. Giunse così la notte. “Ancora uno!” disse la bambina. Crac! Appena acceso, s’immaginò di essere vicina ad un albero di Natale. Era ancora più bello di quello che aveva visto l’anno prima nella vetrina di un negozio. Mille candeline brillavano sui suoi rami, illuminando giocattoli meravigliosi. Volle afferrarli… il fiammifero si spense… le fiammelle sembrarono salire in cielo… ma in realtà erano le stelle. Una di loro cadde, tracciando una lunga scia nella notte. La bambina pensò allora alla nonna, che amava tanto, ma che era morta. La vecchia nonna le aveva detto spesso: Quando cade una stella, c’ è un’anima che sale in cielo”. La bambina prese un’altro fiammifero e lo strofinò sul muro: nella luce le sembrò di vedere la nonna con un lungo grembiule sulla gonna e uno scialle frangiato sulle spalle. Le sorrise con dolcezza.
– Nonna! – gridò la bambina tendendole le braccia, – portami con te! So che quando il fiammifero si spegnerà anche tu sparirai come la stufa di rame, l’oca arrostita e il bell’albero di Natale.
La bambina allora accese rapidamente i fiammiferi di un’altra scatoletta, uno dopo l’altro, perché voleva continuare a vedere la nonna. I fiammiferi diffusero una luce più intensa di quella del giorno:
“Vieni!” disse la nonna, prendendo la bambina fra le braccia e volarono via insieme nel gran bagliore. Erano così leggere che arrivarono velocemente in Paradiso; là dove non fa freddo e non si soffre la fame! Al mattino del primo giorno dell’anno nuovo, i primi passanti scoprirono il corpicino senza vita della bambina. Pensarono che la piccola avesse voluto riscaldarsi con la debole fiamma dei fiammiferi le cui scatole erano per terra. Non potevano sapere che la nonna era venuta a cercarla per portarla in cielo con lei. Nessuno di loro era degno di conoscere un simile segreto!

Il custode dei maiali

C’era una volta un principe povero, che possedeva un reame piccolo piccolo, ma grande abbastanza per potercisi sposare: e infatti lui voleva proprio sposarsi. Certo, era una bella sfacciataggine da parte sua andare dalla figlia dell’imperatore e chiederle:
“Vuoi sposarmi?”, ma lui l’osò, perché il suo nome era pur sempre conosciuto nel mondo: c’erano centinaia di principesse che a una domanda così avrebbero risposto subito di sì: ma lei, invece, niente.
Ora, state un po’ a sentire quel che successe…
Sulla tomba del padre di questo principe cresceva un cespuglio di rose meraviglioso. Questo cespuglio fioriva ogni cinque anni, e faceva una rosa sola, un fiore tanto bello che odorandolo ci si dimenticava di tutti i dolori e le preoccupazioni; e sul cespuglio veniva un usignolo che nel suo piccolo becco sembrava contenere tutte le melodie del mondo. Quella rosa e quell’usignolo sarebbero stati il dono per la principessa: infatti il principe li chiuse in un astuccio e glieli mandò.
L’imperatore ordinò che gli mostrassero i doni, nel grande salone dove anche la principessa veniva a giocare con le sue dame di compagnia (era l’unica cosa che lei sapesse fare). Fu così che , quando vide gli astucci dei regali, batté le mani dalla gioia.
“Magari fosse un gattino”, disse lei: e invece saltò fuori una splendida rosa.
“Che meraviglia”, dissero tutte le dame.
“È veramente bella”, disse l’imperatore .
Ma quando la principessa la toccò con la mano, per poco non si mise a piangere.
“Che orrore , padre!”, disse; “non è finta, è vera!”
“È vera? Che orrore!” dissero le dame.
“Aspettiamo prima di arrabbiarci” disse l’imperatore; vediamo prima cosa c’è nell’altro astuccio. Saltò fuori l’usignolo: all’inizio cantava così bene che nessuno poteva lamentarsi.
Le dame si misero a fare apprezzamenti in francese, una meglio dell’altra: “Superbe! Charmant!”.
Ma poi un vecchio cavaliere osservò: “Mi ricorda molto il carillon della povera imperatrice. È la stessa melodia, lo stesso tono.”
“È vero!”, disse l’imperatore , e si mise a piangere come un bambino.
“Allora, forse non è un uccello vero”, disse la principessa.
“Ma certo che è un uccello vero”, dissero quelli che lo avevano portato lì.
“Allora se ne può anche volare via”, disse quella, e non permise assolutamente che il principe venisse a trovarla a corte.
Ma lui non si lasciò intimidire ; si spalmò sulla faccia una tinta marrone scura, si abbassò il berretto sulle orecchie e bussò alla porta.
“Buongiorno, imperatore”, disse. “Potrei per caso entrare a servizio nel vostro palazzo?”
“Eh, ma lo sa quanti ce ne sono, come lei, che cercano un lavoro!” disse l’imperatore. “Però, aspetta un po’, ho bisogno di qualcuno che stia di guardia ai miei maiali. Ne abbiamo così tanti!”
E il principe fu assunto come guardiano dei maiali dell’imperatore . Gli fu data una lurida stanzetta negli scantinati, vicino alla stalla, e dovette rimanere lì.
Per tutto il giorno rimase seduto a lavorare, e prima di sera aveva già fabbricato una marmitta; intorno all’orlo aveva messo dei campanellini che , non appena la zuppa bolliva, cominciavano a suonare alla perfezione una vecchia melodia:

“O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato…”

Ma la cosa migliore era che se uno infilava il dito nel fumo che saliva dalla marmitta, capiva subito dall’odore quali cibi stavano cuocendo sui fornelli di tutta la città: altro che belle rose!
Proprio in quel momento passò la principessa con tutte le dame; e quando sentì la melodia si fermò, molto contente, perché anche lei la conosceva.

“O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato…”

Anzi, era la sola canzone che conosceva, ma la sapeva suonare soltanto con un dito solo.
“Il nostro custode dei maiali dev’essere molto colto”, disse; “sa proprio la canzone che conosco io!”, disse. “Di grazia, andate a chiedergli quanto costa il suo strumento”.
E così una delle dame dovette mettersi gli zoccoli per andare a parlare con lui.
“Cosa volete per quella marmitta?”, gli chiese.
“Voglio dieci baci dalla principessa!”, disse il custode.
“Mamma mia!”, rispose la dama.
“Mi dispiace, ma non posso venderla per meno”.
Quando la dama fu tornata, la principessa le chiese: “E allora, cos’ha detto?”
“Non posso ripetervelo”, rispose la dama; “È troppo orribile”.
“Ditemelo almeno nell’orecchio”, rispose lei, e così la dama glielo disse nell’orecchio.
“Che razza d’insolente!”, disse la principessa, e se ne andò; ma aveva fatto ancora pochi passi che i campanelli ripresero d’incanto a tintinnare:

“O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato…”

“Di grazia”, disse, “andate a chiedergli se gli vanno bene dieci baci delle mie dame”.
“Proprio no, grazie”, fu la risposta del custode dei maiali. “Dieci baci della principessa: è la mia ultima parola”.
“Che disdetta!”, disse la principessa; “bisognerà che voi dame vi mettiate davanti a me, affinché non ci veda nessuno.
Le dame la circondarono da tutte le parti e allargarono le gonne: così il custode dei maiali ottenne dieci baci, e lei ebbe la pentola.
Che bel divertimento! Per tutta la notte e tutto il giorno misero a bollire la marmitta; così sapevano tutto quello che si stava cucinando in città, dalla casa del ciambellano a quella del ciabattino. Le dame ballavano e battevano le mani dalla contentezza.
“Noi sappiamo chi avrà la zuppa e chi avrà la focaccia! Sappiamo chi avrà la minestra e chi avrà le briciole! Questo sì che è interessante”.
“Certo che è interessante”, disse l’intendente della corte.
“Sì, ma mi raccomando, acqua in bocca! Io sono la figlia dell’imperatore!”
“Ma si figuri”, dicevano in coro tutte quante.
Il custode dei maiali – che in realtà era un principe, ma tutti lo prendevano per un vero custode di maiali – non lasciava passare un giorno senza inventarsi qualcosa. Un giorno costruì una raganella: quando uno la faceva girare saltavano fuori tutti i valzer, le polche e le mazurche che sono state composte sin dalla notte dei tempi.
“Questo sì che è davvero ‘superbe’”, disse la principessa quando passò di lì. “Non ho mai sentito canzoni così belle! Di grazia, andate a chiedergli quanto costa quello strumento; attenzione, però: io baci non glieli do!”
Una dama entrò a chiedere, e tornò dicendo che il custode dei maiali voleva cento baci.
“Ma quello lì è proprio matto, secondo me!”, disse la principessa; e stava per andarsene; ma dopo qualche passo tornò indietro: “Bisogna pur incoraggiare l’arte!”, pensò. “Dopotutto io sono la figlia dell’imperatore! Ditegli che gli darò dieci baci, come l’altro giorno, e gli altri glieli danno le dame!”
“Veramente a noi non piace”, dissero queste.
“Quante storie!”, rispose la principessa. “Se lo bacio io, perché non dovreste baciarlo anche voi? Dopotutto vi pago il vitto e l’alloggio!” E così la dama dovette tornare dal custode.
“Vuole soltanto cento baci dalla principessa”, disse, “Se no ognuno resta con quello che ha”.
“Fate da paravento”, sospirò la principessa: e una volta che tutte le dame si furono messe davanti, baciò il custode dei maiali.
“Che sarà mai tutta quella ressa davanti alla stalla dei maiali?”, si chiese l’imperatore , che si era affacciato al balcone. Si stropicciò gli occhi e poi inforcò gli occhiali.
“Ma sono le dame di compagnia! Chissà cosa stanno combinando! Bisogna che vada a vedere!”, e si tirò le pantofole sul calcagno – veramente un tempo erano state scarpe, ma lui le aveva tutte consumate.
Non appena fu sceso nel parco, prese a camminare piano piano, ma le dame non si accorsero di lui, perché erano troppo impegnate a sorvegliare il corretto svolgimento della faccenda: il porcaro non doveva ricevere troppi baci, ma nemmeno troppo pochi. Così a un certo punto lui si alzò sulle punte dei piedi.
“Ma cosa state combinando?”, disse, e quando vide che si stavano baciando, tirò loro una pantofola in testa, proprio mentre il guardiano dei maiali veniva baciato per l’ottantaseiesima volta.
“Via! Sparite!”, disse l’imperatore , infuriato, e così la principessa e il custode dei maiali furono banditi da tutto l’impero.
Lei si mise a piangere , mentre il custode dei maiali la sgridava, e pioveva a catinelle.
“Povera me!”, diceva la principessa. “Se mi fossi sposata quel bel principe! Come sono infelice”.
Il custode dei maiali andò dietro a un albero, si tolse la tinta nera dalla faccia, si tolse gli stracci e si rimise il suo vestito da principe, talmente bello che la principessa fece un profondo inchino davanti a lui.
“Cara mia!”, disse lui; “Lo sai? Ormai non ti voglio più bene, anzi! Non hai voluto un principe onorato, non sai nulla di rose e usignoli, ma per un sonaglio hai baciato un custode di maiali: ben ti sta!”
E se ne tornò nel suo regno, chiudendo la porta col catenaccio: e così a lei non rimase altro da fare che restare fuori a cantare:

“O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato…”

La principessa sul pisello

C’era una volta un principe che voleva sposare una principessa, ma doveva trattarsi di una principessa vera! Perciò si mise a viaggiare in lungo e in largo per il mondo, ma ogni volta non riusciva a decidersi: principesse ce n’erano un po’ dappertutto, ma erano principesse vere? Non si riusciva mai a saperlo con sicurezza: ogni volta sembrava mancare qualche cosa. Alla fine decise di tornare a casa sua, ma era pieno di tristezza per non essere riuscito a trovare una principessa vera.

Una notte che c’era un tempo orribile, con fulmini, tuoni, e acqua a catinelle, qualcuno bussò alle porte della città, e il vecchio re andò ad aprire.

Fuori dalle mura c’era una principessa: Dio mio, la pioggia e il brutto tempo l’avevano conciata proprio bene! L’acqua le picchiava sui capelli e sui vestiti, entrava nelle scarpe dalle punte e ne usciva dai tacchi: eppure lei sosteneva di essere una vera principessa.

“Questo si vedrà,” pensò la vecchia regina, ma non disse nulla: andò in camera, tolse il materasso dal letto e mise sul fondo un pisello; poi prese venti materassi e li mise sul pisello, e sopra i materassi mise ancora venti grossi cuscini di piume.

Quella sera la principessa dormì lì.

La mattina dopo le chiesero come aveva dormito.

“Malissimo!” si lamentò la fanciulla, “non ho praticamente chiuso occhio per tutta la notte! Chissà cosa c’era in quel letto! Ero coricata su qualcosa di duro e mi sono fatta un enorme livido blu e marrone. È stato terribile!”

Così capirono che era una principessa vera, perché aveva sentito il pisello attraverso venti materassi e venti grossi cuscini di piume. Solo una principessa poteva avere una pelle così sensibile!

Così il principe la prese in sposa, convinto finalmente di avere incontrato una vera principessa, e il pisello andò a finire in un museo, dove, se nessuno è venuto a rubarlo, lo si può vedere ancora.

E questa è una storia vera, sapete?