Non fa paura la notte

Dovunque sei, ovunque andrai, porta con te dei ritagli di luce
so che ne sarai capace, so che già ne sei capace.
Qualunque strada percorrerai, tieni con te dei pezzetti di cielo,
so che lo farai davvero e li userai quelle volte
che vorrai provare a volare più in alto del vento
là dove solo il sogno riesce ad arrivare.
Ogni volta che perdi la via, guarda nel cielo e raccogli una stella,
conservala dentro al tuo cuore, ti darà luce e direzione;
se nei miei giorni camminerai, camminerò dentro ai tuoi,
per scaldarti quando cala la sera, per scaldarti quando viene la sera
e insieme volare più in alto del vento,
là dove solo il sogno riesce a sfiorare la vera libertà,
a trovare la vera libertà.
Io ti racconterò tutte quante le storie e le favole che ancora non sai
e vivrò in ogni tuo sorriso, nei respiri o dentro una lacrima che ti scende sul viso.
Dovunque sei, ovunue andrai, inventa le note più belle che puoi,
perchè se ci accompagna la musica, non fa paura la notte, non fa paura la notte.

La danza della neve

Sui campi e sulle strade
silenziosa e lieva
volteggiando, la neve
cade.
Danza la falda bianca
nell’ampio ciel scherzosa,
Poi sul terren si posa
stanca.
In mille immote forme
sui tetti e sui camini,
sui cippi e sui giardini
dorme.
Tutto d’intorno è pace;
chiuso in oblio profondo,
indifferente il mondo
tace.

di Ada Negri

Tancredi e Ghismunda

Tancredi, principe di Salerno ha una figlia di nome Ghismunda. Tancredi ama tanto Ghismunda che non vuole che lei si sposi ma alla fine deve accettare il suo matrimonio. Poco dopo però il marito di Ghismunda muore e così la figlia rimane vedova e torna da lui.
Ghismunda, dato che è una donna giovane, ha voglia di amare. Pensa che sia più giusto amare di nascosto, cioè avere un amante, perché il padre non vuol che lei lo abbandoni. Si innamora, tra tanti giovani, del valletto Guiscardo, e lui di lei. I due si incontrano di nascosto e lei non fa sapere a nessuno la storia con lui, ma un giorno viene scoperto dal padre e subito Guiscardo viene imprigionato. Tra la figlia e il padre c’è una lunga discussione: Ghismunda pensa che non è importante se l’uomo da amare è nobile di nascita o no ma è importante che sia nobile d’animo; Tancredi non la pensa allo stesso modo ma pensa che è nobile chi nasce nobile.
Ghismunda promette che si suiciderà se il padre uccide Guiscardo, ma lui non le crede, lo uccide e porta il cuore di Guiscardo a Ghismunda, lei bacia il cuore e beve il veleno.
Alla fine Tancredi si pente di non avere ascoltato la figlia. Mette Ghismunda e Guiscardo insieme nella tomba e rende pubblico il loro amore, come avrebbe voluto Ghismunda.

La badessa e le braghe

Ci sono molte persone che vogliono punire gli errori degli altri e che poi vengono smascherati dalla fortuna. Come è stato per una monaca.
In un famosissimo convento in Lombardia c’era una monaca elegante e bella, di origini nobili; questa monaca si chiamava Isabetta.
Isabetta era innamorata di un giovane bellissimo e questo ricambiava il sentimento.
Il giovane veniva a trovare Isabetta in convento ma in questo modo viene visto da altre monache. Una monaca, che era invidiosa, decide di dire tutto alla badessa (la suora più importante) che si chiamava Usimbalda; dato che non voleva che Isabetta negasse, decide di avvertire la badessa quando Isabetta si trovasse con il giovane, in questo modo la badessa li scoprirebbe insieme.
Una notte il giovane tornò in convento da Isabetta e le altre monache corsero a chiamare la badessa.
Cominciarono a bussare alla porta della badessa dicendole che Isabetta era in camera con un giovane.
La badessa però era in compagnia di un prete e dato che aveva paura che le monache entrassero in camera e la vedessero con lui, si affretta a vestirsi; ma invece di mettere il velo intorno alla testa, per sbaglio si mette le braghe (mutande) del prete e corse con le altre monache da Isabetta.
Nella fretta le altre monache non si erano accorte delle braghe, andarono da Isabetta ed entrarono nella sua stanza. La badessa gridava “Dove è questa maledetta da Dio?” e poi quando la vide a letto con il giovane si sedette e cominciò a parlarle:
“Tu hai portato la vergogna in questo convento, per colpa tua ora si dirà che noi non siamo donne oneste e pure!” e continuò ad insultarla. Le altre monache guardavano Isabetta e Isabetta abbassava la testa mentre il giovane era lì vicino.
Ad un tratto Isabetta alzò la testa e vide le braghe e disse alla badessa:
“Voi avete ragione, però per favore allacciatevi la cuffia (il velo che hanno in testa), e poi mi direte quello che volete”. La badessa la guardava e non capiva, poi si toccò il velo e capì mentre anche le altre monache ora la guardavano. La badessa cambiò tono e disse che era difficile resistere ai piaceri della carne e che ogni monaca poteva andare con un ragazzo.
Così la badessa tornò a letto con il prete, Isabetta con il giovanotto e le altre monache, che non avevo l’amante, dovettero cercarlo.

Federigo degli Alberighi

Federigo degli Alberighi si innamora di monna Giovanna e spende inutilmente tutto quello che ha per conquistarla.
Rimasto senza niente, Federigo si ritira in una piccola casa di campagna con la sua ultima ricchezza: un bellissimo falcone (come un’aquila), con il quale cacciava.
Monna Giovanna rimane vedova e con un figlio ormai già grandicello e va, come faceva di solito, a passare l’estate in una casa vicino a quella di Federigo.
Intanto nel giovane figliolo cresce il desiderio di avere il falcone di Federigo, e per questo si ammala.
La madre, che ama il proprio figlio più di qualunque altra cosa, tenta di accontentarlo nella speranza che guarisca.
Il giorno seguente va, in compagnia di un’altra donna, dal buon Federigo che gentilmente l’accoglie. Trovandosi, però, senza qualcosa da cucinare che fosse adatto alla donna che amava, pensa di far cucinare il suo falcone a cui voleva molto bene.
Finito il pranzo, monna Giovanna fa la sua richiesta e il povero Federigo si dispera non potendo accontentare la donna.
Dopo alcuni giorni muore il figlio di monna Giovanna e, rimasta sola, decide di sposarsi con Federigo degli Alberighi dal quale avrebbe avuto solo tanto amore.

Andreuccio da Perugia

Andreuccio si trova a Napoli con una borsa piena di cinquecento fiorini con i quali avrebbe dovuto comperare un cavallo, dato che a Napoli c’era un buon mercato.
Una donna, astuta e furba, vista la ricchezza che possedeva quel giovane, decide di sottrargliela pensando ad una beffa.
La bella donna invita Andreuccio a casa sua e gli dice di essere sua sorella che lui non sapeva di avere. La donna racconta alcuni fatti reali e credibili e riesce a convincere il povero Andreuccio.
Dopo esser stato ripetutamente invitato a passar la notte in quella casa, Andreuccio accetta e viene messo in una stanza. Dopo averla raggiunta e essersi spogliato, Andreuccio si dirige verso il bagno dove sfortunatamente inciampa e cade a terra dolorante.
Approfittando dell’occasione, la donna entra nella stanza e ruba la ricca borsa.
Il povero Andreuccio, trovatosi rinchiuso nel bagno, trova una via di uscita sopra la sua testa e scavalcando un muro è fuori.
Si trova, però, senza i suoi averi, allora bussa e grida alla porta svegliando un grosso e pauroso uomo che affacciandosi minaccia il giovane che ha paura e scappa.
Per la strada incontra due “briganti” che volevano profanare (cioè entrare in un luogo sacro per rubare) una tomba nella chiesa dove c’era il corpo di un ricco arcivescovo che era stato seppellito con un tesoro.
Il giovane partecipa pensando di poter guadagnare qualcosa, ma sapeva anche che i due l’avrebbero sicuramente tradito. Aperta tomba i due costringono Andreuccio ad entrarci e lui, furbo, prende subito l’anello e passa fuori dalla tomba tutto il resto tranne quello, sapendo che i due l’avrebbero chiuso dentro. E quelli infatti fanno così.
Andreuccio si ritrova rinchiuso, ma ad un certo punto sente delle voci e tra queste voci c’è quella del prete che, per mostrare di avere coraggio, mette le gambe nella tomba ma si sente afferrare, grida per la paura e salta fuori. Tutti scappano lasciando l’apertura che permette ad Andreuccio di uscire. Il buon Andreuccio riesce così ad essere ripagato della beffa subita con uno stupendo anello di valore.

Lisabetta da Messina

Questa novella parla di Elisabetta, una giovane e bella ragazza, che viveva a Messina insieme ai suoi tre fratelli. I fratelli erano mercanti ed erano diventati ricchi per l’eredità del padre.
Elisabetta, nonostante fosse una bella ragazza, non si era ancora sposata, ma ben presto s’innamorò di un aiutante dei fratelli di nome Lorenzo, il quale dimostrò subito di avere gli stessi sentimenti di Elisabetta.
Una sera uno dei tre fratelli scoprì casualmente la relazione tra i due ragazzi e, quando la mattina seguente ne parlò con gli altri, tutti insieme decisero di far finta di non sapere nulla e di ucciderlo perché Lorenzo, secondo loro, era una vergogna per la sorella e per tutta la famiglia.
Così un giorno i tre portarono Lorenzo fuori città, l’uccisero e poi lo seppellirono; tornati in città dissero di averlo mandato lontano per alcuni compiti e, dato che lo facevano spesso, gli altri ci crederono.
Elisabetta, vedendo che Lorenzo non tornava, cominciò a chiedere sue notizie ai fratelli in maniera sempre più insistente, finché una notte lui le apparve in sogno: le disse che i suoi fratello lo avevano ucciso, e che perciò non poteva più tornare e le disse il luogo in cui era sepolto e poi scomparve.
Il giorno seguente, senza avere il coraggio di affrontare i fratelli, Elisabetta andò verso il luogo che Lorenzo le aveva indicato in sogno e trovò il corpo. Sapendo di non poterlo seppellire come avrebbe voluto, tagliò la testa e la portò con sé.
Arrivata casa mise la testa dell’amato in un vaso, riempì questo di terra e vi piantò numerosi rami di basilico salernitano, che innaffiò per lungo tempo con le proprie lacrime; questo comportamento fu notato da alcuni vicini, i quali informarono i tre fratelli.
I tre fratelli, dopo aver più volte rimproverato la ragazza, decisero di sottrarle il vaso.
Elisabetta continuò a chiedere con insistenza la restituzione del vaso, continuando a piangere e ammalandosi. I fratelli, incuriositi da queste continue richieste, guardarono all’intero del vaso e subito trovarono sul suo fondo i resti della testa di Lorenzo, e per paura che questo fatto si venisse a sapere, trasferirono tutti i propri affari a Napoli.
Nel giro di poco tempo, Elisabetta morì continuando a domandare del vaso, e con lei morì il suo grande amore.

Ser Ciappeletto

“Ser Ciappelletto” è la novella iniziale della prima giornata del Decameron. Pampinea, “regina”della giornata, affida a Panfilio il compito di cominciare il racconto della storia. Panfilio fa un’introduzione e dice che la realtà è un insieme di “cose temporali”, quindi subiscono il passare degli anni e sono destinate a morire. Mentre le cose sono destinare a morire e sono fragili, Dio è potente e grande. Dio aiuta gli uomini non perché se lo meritano ma perché è buono.
Gli uomini non possono parlare direttamente a “Lui” e perciò pregano le persone che quando erano vive facevano quello che Dio voleva. Queste persone sono poi diventate sante. Però a volte succede che le persone si sbagliano e cominciano a pregare delle persone che sono dannate, come Ser Ciappelletto.

Ser Ciappelletto è descritto da Boccaccio come “il peggior uomo che mai nascesse” ma la sua comunità lo considera santo.
Egli è un falsario pronto a cambiare la realtà in tutti i modi per avere dei vantaggi, è un abile bugiardo, è uno senza pietà, è un assassino, bestemmiatore, traditore della Chiesa e della religione (che naturalmente non segue), ladro, ruffiano nei confronti di uomini e donne ed è anche un ubriacone: un uomo abituato al peccato e ai piaceri.
Cepparello da Prato era conosciuto anche come Ser Ciappelletto. Cepparello lavora da Musciatto Franzesi e gestisce i suoi affari in tutta la regione. Durante il suo viaggio, viene accolto in casa di due fratelli usurai e qui, però, si sente male. I due fratelli, hanno paura che Ser Ciappelletto morisse senza l’estrema unzione (è un sacramento che il prete dà a chi sta per morire), ma dato che lui era un peccatore come avrebbe potuto andare da un prete?
Ser Ciappelletto però sente i due fratelli parlare e dice che devono stare tranquilli.
Quindi dice di chiamare un prete, il più santo che ci fosse, perché lui voleva confessarsi (cioè dire i suoi peccati davanti al prete che rappresentava Dio).
Quando il prete arriva, però, Ser Ciappelletto gli fa credere di essere un uomo religioso, che va sempre a messa, un buon cristiano che dà sempre i soldi ai poveri e che segue sempre le leggi di Dio. Il prete rimane colpito da tanta purezza e dopo la morte di Ser Ciappelletto comincia a fare le sue lodi, dicendo che era un buon cristiano.
I due usurai intanto preparano i funerali di Ciappelletto usando i soldi che erano suoi. Al funerale partecipano tante persone che erano convinte delle cose che erano state dette su Ciappelletto. Quindi tutti pensano che Ser Ciappelletto fosse santo.

In questa novella il protagonista riesce a vincere grazie alla parola. Con le parole fa credere a tutti di essere santo e tutti ci credono. E’ anche una novella anti-cristiana perché Dio non interviene per far vedere che Cepparello è un bugiardo. E’ la prima novella della prima giornata e il tema è libero.

Giovanni Boccaccio

Nasce nel 1313. E’ appassionato di Dante e Petrarca.
Il padre è bancario, vive a Napoli alla corte degli Angioini; gli Angioini erano francesi ma per un periodo regnano anche su Napoli. Nella corte, come sappiamo, oltre al re ci sono i cortigiani, i nobili, c’è un ambiente raffinato e colto. La corte è autosufficiente, non si ha bisogno di uscire, i divertimenti dei nobili sono dentro la corte, si fanno i banchetti, si parla. Chi vive in una corte non è costretto a sporcarsi le mani.
Boccaccio apprezza tutto questo. Si trova a suo agio a corte. Frequenta molto la biblioteca della corte angioina, vive tra feste e incontri come i nobili.
Ad un certo punto però la banca dove lavorava il padre fallisce. Le banche prestavano denaro e chiedevano interessi, a volte succedeva che i nobili a cui prestavano il denaro non ridavano i soldi e quando erano in tanti la banca rischiava di fallire.
Il padre di Boccaccio deve lasciare la corte e tornare a Firenze. Firenze è una città borghese, bisognava lavorare per vivere, qui Boccaccio non ha più il benessere che aveva a corte.
Boccaccio poi prenderà i voti, diventando chierico, per avere uno stipendio.
E’ nel periodo fiorentino che Boccaccio scrive il Decameron.
Il Decameron è un’opera in prosa, quindi mentre Petrarca è importante per la poesia, Boccaccio è importante per la prosa.
Abbiamo già visto con Petrarca che si comincia ad affermarsi una mentalità antropocentrica, cioè il pensiero in cui l’uomo è al centro.
Petrarca e Boccaccio usano un volgare fiorentino, Dante, come sappiamo, non usava una sola lingua, sperimenta il volgare, usa parole straniere, inventa parole nuove.

Bisogna ricordare che esistono due mondi:
La classe borghese: per vivere si deve lavorare, studia la realtà (per produrre, per vendere); capisce i bisogni e si piega a questi bisogni
La nobiltà: non si deve lavorare per vivere, sta nella sua corte, nel suo castello e l’unico problema che ha è passare il tempo; quindi leggono, ascoltano e recitano opere.

Decameron

Viene dal greco deca + emeron che vuol dire “dieci giorni”. Il Decameron si svolge in dieci giorni, è una raccolta di novelle (brevi storie). Forse Boccaccio conosceva e si è ispirato a Le mille e una notte.

Immagina dieci giovani nel 1348 (è l’anno in cui muore Laura per la peste) che durante l’epidemia di peste si incontrano a Santa Maria Novella, una chiesa di Firenze.
Spaventati dalla peste vogliono allontanarsi da Firenze e vanno nelle colline Fiesolane, vicino Firenze.
Questi dieci giovani decidono di trascorrere (passare) la giornata raccontando a turno delle novelle.
L’obiettivo delle novelle è, come si vede, l’intrattenimento, il passare il tempo.
Ogni giorno viene eletto un re che sceglie il tema della giornata (ad esempio la beffa, la storia d’amore, l’amore infelice ecc…).
Il re comincia poi altri otto raccontano ognuno una novella al giorno su quel tema. Un giovane, che si chiama Dioneo, può raccontare la novella sul tema libero.

Forse Dioneo rappresenta lo stesso Boccaccio. Dione nella mitologia era la madre di Venere.

Dieci giovani vuol dire dice novelle al giorno, i giorni sono dieci quindi abbiamo cento novelle.
Questa è la cornice del Decameron, cioè come è costruita l’opera. Boccaccio non vuole fare delle novelle che diventino delle opere separate ma le unisce usando una cornice, cioè una struttura che le tenga insieme. La cornice sono i giovani che raccontano.
Le novelle sono ambientate in città diverse. In questi anni si viaggia molto, ad esempio Marco Polo, che era un veneziano, arriva in Cina.
Nelle novelle ci sono molti borghesi dato che per Boccaccio non sono meno importanti dei nobili. Ci sono anche le altre classi sociali. Boccaccio nelle novelle mette tutto l’universo umano: i ricchi, i poveri, i nobili, le donne, i contadini, l’amore spirituale, l’amore carnale (con il sesso), troviamo il mercante, l’imbroglione, il furbo, l’aggressivo ecc…
Boccaccio racconta anche tutti gli aspetti dell’amore e l’immagine del peccato non si sente in lui. C’è l’amore cortese e l’amore fisico. Il sesso viene descritto anche nei dettagli per questo oggi in italiano quando diciamo “boccaccesco” vuol dire volgare.
Non c’è l’idealizzazione della realtà, cioè la realtà non è vista come qualcosa di astratto o pensato ma viene descritta in modo reale, vivo e crudo. Boccaccio rappresenta la realtà nel bene e nel male

Il Decameron è dedicato alle donne: Boccaccio vuole consolarle dalle sofferenze d’amore. Gli uomini quando soffrono per amore possono distrarsi, ci sono tanti divertimenti, ma per le donne no.
Il pubblico del Decameron è più grande del pubblico della Divina Commedia.

Boccaccio è ateo (cioè non crede in Dio)? No, Boccaccio è laico: considera la vita terrena importante quanto la vita dopo la morte, quindi realizza progetti “terreni” e si diverte. Dante, invece, vive in funzione della vita dopo la morte.

Nelle novelle torna il concetto di Fortuna. La fortuna è un concetto (idea) pagano, è una forza superiore che però, per Boccaccio, non c’entra niente con Dio.
Per Boccaccio ci sono due forze che muovono le azioni nel mondo:
la fortuna (che non è religiosa)
l’amore

La peste è descritta in modo realistico.

Bisogna notare che la cornice del Decameron (cioè i dieci giorni che si riuniscono) rappresenta la corte, è una realtà ideale, una realtà cortese. Mentre le novelle che raccontano rappresentano una classe più bassa, una classe che deve lavorare per andare avanti, è una realtà più concreta (più reale).

Novelle:
» Ser Ciappeletto
» Lisabetta da Messina
» Federigo degli Alberighi
» La badessa e le braghe
» Andreuccio da Perugia
» Tancredi e Ghismunda

Amore in Dante, Cavalcanti e Guinizelli

Guido Guinizelli: Secondo la tradizione cortese, l’amore di Guinizelli ha il suo luogo nel “cor gentile”. La gentilezza di cui parla il poeta è la nobiltà d’animo, l’elevatezza del pensiero, la disposizione del carattere verso la virtù, la sensibilità e la delicatezza, la capacità di provare sentimenti profondi.
Al cor gentil rempaira empre amore è la lirica di Guinizelli che è considerata il manifesto dello stil novo.
La donna accende l’amore nel cuore dell’uomo. La donna ha l’aspetto di un angelo e ha le capacità di migliorare il cuore dell’uomo e di disporlo alla virtù. Ma la donna anche se sembra un angelo non può portare l’amante all’amore che viene da Dio.
In Guinizelli lo scontro tra amore erreno e fede in Dio non si risolve. Le lodi vanno rivolte e Dio e non alla donna.

Guido Cavalcanti: in Cavalcanti c’è l’idea di amore come passione, tormento, sentimento travolgente che la ragione non può conoscere né controllare. L’impotenza (cioè il fatto che non ce la fa) della ragione provoca nel poeta paura e angoscia.
Anche in Cavalcanti la donna sembra un angelo ma non può elevare l’uomo a Dio.Di fronte alla donna il poeta è sconvolto dalla sua bellezza oppure è tormentato dall’amore che gli fa immaginare la morte.

Dante nella Vita Nova: Nella prima parte della Vita Nova Dante riprende il concetto di “cor gentil” di Guinizelli e la visione dell’amore come sofferenza di Cavalcanti.
Ma dopo che Beatrice non lo saluta (perché credeva che Dante si innamorasse di tante ragazze) e dopo il “gabbo” (quando Beatrice lo prende in giro perché Dante è svenuto davanti a lei) la concezione dell’amore in Dante cambia. L’amore per Beatrice diventa spirituale, mistico: Beatrice è una creatura che è tra il poeta e Dio. Al centro della poesia non c’è più la sofferenza dell’amante ma la celebrazioni delle doti spirituali dell’amata.
Lo scontro tra amore e fede si risolve ma si deve rinunciare all’amore terreno.

Il dolce stil novo

Il dolce stil novo nasce verso la fine del Duecento tra Bologna e Firenze. Nasce quindi in un ambiente comunale. Il comune è molto dinamico (vivace, vitale, vivo, con molti eventi), ci sono scontri interni (come tra i guelfi e i ghibellini), la società cambia molto velocemente. I poeti non sono uomini di corte (la corte è la residenza del re), ma sono persone che sono attive nella società.
Lo stilnovo nasce dopo le esperienze della lirica provenzale e della scuola siciliana.
E’ Dante che dà il nome a questo nuovo stile nel fare poesia.
Dante dà una definizione del dolce stil novo nel canto XXIV del Purgatorio:

I’mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’è ditta dentro vo significando.

Cioè: “Io sono uno di quelli che quando amore lo ispira, scrive, e do un significato a quello che l’amore detta da dentro”

Quindi la poesia sarebbe uno scrivere direttamente e immediatamente quello che ispira l’amore.
Ma l’amore non è un amore carnale e sensuale dell’amor cortese. L’amore dello stilnovo è un amore spirituale, è un amore con la “A” maiuscola, appunto. L’amore permette al poeta di raggiungere un livello più alto di spiritualità.
Rispetto alla scuola siciliana e all’amor cortese cambia anche la figura della donna. Infatti nello stilnovo la donna è una figura angelica, è una donna-angelo. E’ l’amore per lei che porta il poeta alla salvezza. E’ un amore che rende puri.
Guido Guinizelli per primo parla della donna-angelo nella canzone “Al cor gentile rempaira sempre amore”.
E’ importante anche il fatto che cambia il tipo di “gentilezza” (gentile = nobile). Infatti ora per nobiltà non si intende una classe sociale, i nobili veri e propri, la nobiltà di sangue; ora con nobiltà si intende nobiltà d’animo, nobiltà di cuore.
L’uomo dal cuore nobile è un uomo in cui l’amore ispira. E’ un uomo leale (cioè fa quel che dice), è onesto, ama la giustizia, non è schiavo della passione e rispetta gli altri.
Lo stilnovo è chiamato dolce perché il linguaggio è elegante e musicale e si parla di amore spirituale.

Autori importanti sono: Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti e Dante

Terenzio

Molte cose che sappiamo su Terenzio sono state scritte da Svetonio nel De viris illustribus.
Il nome completo di Terenzio è Publius Terentius Afer e, come dice il cognome Afer, sappiamo che è di origini libiche. Terenzio nasce però a Cartagine tra il 195 e il 185 a.C.
Viene a Roma quando è ancora un ragazzo. Essendo figlio di uno schiavo va presso il senatore Terenzio Luciano che per l’intelligenza e la bellezza lo libera e gli dà il suo nomen.
Terenzio frequenta gli ambienti aristocratici e diventa amico del giovane Scipione e di Polibio.
Nel 166 a.C. viene rappresentata la sua prima commedia, l’Andria.

Terenzio non ha un buon rapporto con il pubblico così come l’aveva avuto Plauto.
Viene accusato di plagio (cioè di aver copiato), di aver usato la contaminatio (contaminatio vuol dire “mischiare sporcando”, questo avviene quando un autore mischia due opere precedenti) e di aver prestato il suo nome per le commedie scritte da altre persone.
Ritornando dalla Grecia nel 159 a.C. la sua nave affonda ed egli scompare con le sue opere.

Le sue commedie erano raccolte in codici e questi erano preceduto dalle didascalie. Nelle didascalie vengono riportati i dati sulle festività dove le sue commedie venivano rappresentate, oppure sugli strumenti musicali usati, sull’autore delle musiche e il nome del capocomico. Queste didascalie sono utili oggi per avere le informazioni sulle commedie di Terenzio.

Le commedie

Terenzio aiuta la cultura romana ad essere meno provinciale. Egli, per scrivere le sue commedie, prende esempio dall’autore greco Menandro.
Terenzio non è molto interessato alla storia e alle azioni ma è più interessato a parlare dei sentimenti e del carattere dei personaggi. La storia comunque si svolge in maniera rapida e gli stessi attori non sono mai per molto tempo sul palcoscenico. In questo modo Terenzio cerca di tenere viva l’attenzione del pubblico che altrimenti si sarebbe annoiato. In Plauto c’è molto movimento nelle commedie, in Terenzio invece c’è più immobilità e per questo le sue commedie sono più difficili da seguire.
Questo tipo di commedia però non aveva molto successo sul pubblico romano che preferiva le battute più dirette e la comicità immediata.
I personaggi di Terenzio hanno una buona conoscenza di se stessi e riflettono su quel che succede in maniera filosofica.
Cambia il concetto dell’humanitas, infatti in Terenzio la nobiltà d’animo non corrisponde alla nobiltà di sangue o di ricchezza e anche le prostitute e i servi possono essere generosi e sacrificarsi per gli altri. Aiutare gli altri diventa così un valore “umano” molto importante. L’uomo ha fiducia in se stesso e si considera importante. L’uomo vale molto e sa che gli altri valgono molto.
Mentre in Plauto i personaggi erano maschere, dato che i personaggi avevano sempre gli stessi comportamenti (ad esempio la prostituta cercava sempre di ingannare, il vecchio era sempre avaro, il giovane era innamorato ma non sapeva come fare, il servo era intelligente e cercava di ingannare il signore), in Terenzio i personaggi sono molto complessi. Perde di importanza l’inganno e, di conseguenza, perde di importanza il servo furbo. In Plauto si parla quindi di maschere mentre in Terenzio si parla di tipi.
C’è uno scontro tra vecchi e giovani: i padri non obbligano i giovani a fare quello che vogliono loro ma sono saggi, maturi e autorevoli. I giovani (che rappresentano la nuova cultura che si afferma a Roma a contatto con la Grecia) si ribellano ai vecchi (che rappresentano le tradizioni, il mos maiorum).
In Terenzio c’è la fortuna che è un elemento esterno che spesso decide al posto dell’uomo.
In Terenzio c’è quasi una “chimica dei sentimenti”, cioè egli cerca di mostrare come reagirà un certo personaggio, con un carattere e una educazione particolari, in una certa situazione. Il risultato serve a far riflettere gli spettatori.
La lingua in cui scrive Terenzio è poi una lingua molto raffinata ed elegante e i toni sono semplici e tranquilli mentre Plauto preferiva un linguaggio più diretto ed espressivo.
C’è una riduzione dell’elemento musicale e un bilanciamento dei personaggi in scena.
Cambia la funzione del prologo. Il prologo in Plauto serviva a dare agli spettatori delle informazioni importanti per seguire la storia. In Terenzio il prologo c’è sempre ma serve all’autore per comunicare con il pubblico.
In questo modo il pubblico comincia a vedere lo spettacolo senza sapere di che cosa si parli e questo genera una maggiore curiosità.
Tra le commedie di Terenzio ricordiamo: Andria (“la ragazza di Andro”), Hecyra (“La suocera”), Heautontimorumenos (“Il punitore di se stesso”), Eunuchus (“L’eunuco”) e Adelphoe (“I fratelli”).

Andria

Questa commedia è ripresa dal dramma scritto da Menandro.
La commedia parla di Glicerio, una ragazza che viene da Andro e va ad Atene.
Un ragazzo che si chiama Panfilo si innamora di lei. Panfilo però è costretto dal padre a sposare Filumina.
Glicerio però rimane incinta di Panfilo e abbandona il figlio davanti alla casa di Cremete, il padre di Filumina. Cremete, quando scopre di chi è quel bambino, proibisce a Panfilo di sposare Filumina.
Però poi si scopre che anche Glicerio è sua figlia e così la fa sposare con Panfilo.

Hecyra

Panfilo è un giovane di Atene ed ama Bacchide, una prostituta. I suoi genitori però vogliono che sposi Filumina.
Panfilo sposa Filumina ma continua a vedere Bacchide. Panfilo deve partire e lascia la moglie Filumina con sua madre Sostrata.
Filumina torna da sua madre perché è incinta, infatti era stata violentata da un uomo al buio.
Quando Panfilo torna discute con Filumina. Bacchide va a casa degli sposi e dice che Panfilo non va più da lei ma si scopre che la prostituta ha un anello che era stato rubato a Filumina dall’uomo che l’aveva violentata. Bacchide dice che glielo ha dato Panfilo. Quindi si scopre che Panfilo è l’uomo che ha violentato Filumina e si risolve tutto.

Heautontimorùmenos

Menedemo è un padre severo e discute con il figlio Clinia perché Clinia si è innamorato di Antifila, una giovane povera. Clinia non sopporta più di discutere e parte come soldato. Il padre si pente e va a vivere in campagna e si mette a fare lavori faticosi come punizione. Il suo vicino Cremete cerca di consolarlo.
Clinia dopo tre mesi torna di nascosto e va a vivere da Clitifone, il figlio di Cremete. Clitifone è innamorato di Bacchide, una prostituta.
Clitifone e Clinia cercano di ingannare Cremete e mostrano Bacchide dicendo che è Antifila mentre la vera Antifila finge di essere la serva di Bacchide.
La moglie di Cremete però vede che la serva di Bacchide ha un anello e questo anello era quello che lei aveva dato a sua figlia quando l’aveva abbandonata. Quindi la moglie di Cremete scopre che la vera Antifila è in realtà la figlia di Cremete. Nello stesso tempo Cremete scopre che Bacchide è l’amante di Clitifonte.
La situazione ora è al contrario: è Menedemo che deve consolare Cremete.
Alla fine Clinia può sposare Antifila, che ora non è più povera mentre Cltifone lascia Bacchide e si sposa con una ragazza che sceglie il padre.