Le foglie morte

Sono per me,
le foglie morte,
i sogni miei
che hai preso tu.

Morì così
il nostro amore,
scese l’autunno
nei nostri cuor.

Foglie morte son
le illusioni
vissute allora
insieme a te.

E l’amore non è più
che un sogno,
un sogno già spento
per te.

Foglie morte son
le illusioni
vissute allora
insieme a te.

E l’amore non è più
che un sogno,
un sogno già spento
per me.

Settembre

Stai con me
com’è difficile
strimgerti a me
con tutta l’anima
restiamo insieme fina a quando gli occhi tuoi
ancora chiusi troveranno gli occhi miei.
Stai con me per ogni lacrima
che cade giù da questa nuvola
quando la notte piano piano finirà
chissà chi è il primo di noi due che parlerà.
Settembre poi ci prenderà,
coi suoi venti di pioggia vincerà.
Adesso no, ferma il tuo attimo,
stringiti a me per questo secolo
quando la musica pian piano finirà,
come un miracolo poi l’alba nascerà.
Restiamo insieme fina a quando gli occhi tuoi
ancora chiusi troveranno gli occhi miei.
Settembre non ci troverà,
coi suoi venti non può, non vincerà.
Adesso si tutto è possibile
farlo così con tutta l’anima
quando la musica pian piano finirà,
chissà chi è il primo di noi due che parlerà

Nessuno tocchi Caino

Io sono l’uomo che non volevi,
sono più di tutto quello che temevi.
Domattina sai che ti porterò
al di là dei tuoi stessi pensieri.

E’ tutto pronto perchè non sbaglio,
ho curato fino al minimo dettaglio.
Quando punterai gli occhi dentro ai miei,
io saprò sostenere lo sguardo.

Il mondo non passa da qui
e non mi importa più di me;
troppi giorni chiusa ad aspettare che
si allargasse il cielo e scendesse su di noi
una mano e un gesto di pietà,
una mano e un segno di pietà.

Il corridoio si stringe ancora,
lo dovrai vedere solo per un’ora.
E’ il lavoro mio, è la vita mia;
a eseguire il destino s’impara.

Ma non mi scordo del primo uomo;
ho bevuto per non chiedergli perdono.
Non moriva mai, non finiva mai.
Ma ti abitui a tutto, non lo sai?

Il mondo non passa da qui
e il mio pensiero è andato via,
oltre a queste sbarre fino a casa mia.
C’è lo stesso cielo che domani avrà
una firma e un gesto di pietà,
una mano e un segno di pietà.

Tutto è compiuto perfettamente,
oramai qui non si sbaglia quasi niente.
Controllate voi, due minuti e poi
io potrò tornarmene dai miei,
perchè anch’io ho moglie e figli miei.

Il mondo non passa da qui,
ma la mia anima è già via
e dall’alto guarda fino a casa mia.
C’è lo stesso cielo, che domani avrà
una croce e un gesto di pietà.

Io sono qui e la mia anima non è
solo un numero appoggiato su di me:
è una luce bianca andata dove sa,
tra le stelle e un gesto di pietà,
oltre il cielo dove c’è pietà

#

Ora davvero è dura
per l’atto compiuto assorto
pel fidarmi, banale torto,
lasciandomi cadere senza cura.

Rapito dalla diurna stanchezza
attardato già sulla via
che risolve a casa mia
vinto ormai da leggerezza.

Il confortevole o la pigrizia
mi fecero un poco vacillare
ed ora che la rabbia m’assale
il biasimo s’arresta su cotal impudicizia.

(Titolo: Chewingum sul sedile dell’autobus)

La ginestra, o il fiore del deserto

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d’or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Su l’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

#

Un tremito possente
mi scuote da dentro
dipana dal centro
e tormenta la mente.

Dileguarsi senza indugiare,
ché il probabile periglio
mi sospinga a un nascondiglio
ove il mio dolor vuotare.

E nella fuga a perdifiato
il mio pensier tardo è naufragato.

(Titolo: Latte scaduto)

Il fagiolo magico

C’era una volta un ragazzo di nome Giacomino che, dopo la morte di suo padre, viveva con la mamma in una piccola fattoria.
Erano molto poveri e possedevano solo una mucca dalla quale ogni giorno mungevano il latte. Ma, ahimé, arrivò il giorno in cui neanche la mucca fu più in grado di offrir loro qualcosa e così la madre di Giacomino decise di venderla.
Se la mucca non poteva fare più latte, vendendola, avrebbero almeno ricavato un po’ di denaro per poter mangiare.
Giacomino si avviò verso il mercato con precise istruzioni per ricavare il più possibile dalla vendita della loro mucca. Non aveva ancora percorso un chilometro quando al margine della strada vide uno strano omino, che rivolgendosi a Giacomino disse: “Che bella questa mucca!”.
“Sì, lo è!”, confermò Giacomino, “sto andando al mercato per venderla”.
“Dalla a me”, disse l’omino “prendi questi cinque fagioli in cambio. Piantali con cura e loro faranno la tua fortuna”.
Prima ancora che Giacomino potesse rispondere, l’omino aveva preso la mucca ed era sparito.
Solo in quel preciso istante Giacomino cominciò a pensare di aver commesso un errore. Cosa avrebbe detto sua madre?… Mentre si avviava verso casa sentiva il suo cuore battere forte al pensiero di quello che sua madre avrebbe detto o fatto.
“Come? Sei già di ritorno?”, esclamò sua madre, “quanto hai guadagnato dalla vendita della mucca?”
“Cinque fagioli magici”, rispose Giacomino.
“Cosa? Stai scherzando? Abbiamo bisogno di denaro per comprare da mangiare, come puoi essere stato così idiota da accettare un simile scambio?”.
Detto questo afferrò i fagioli e li gettò fuori dalla finestra e il povero Giacomino andò a letto senza cena.
Il giorno dopo, quando Giacomino si svegliò, vide qualcosa di strano.
Nella sua stanzetta filtrava dalla finestra una insolita luce verde. Giacomino corse verso la finestra e cosa vide?
Una scena straordinaria… i fagioli avevano germogliato dando vita ad un enorme albero con un lunghissimo fusto che saliva in alto… ma tanto in alto da perdersi nelle nuvole.
Senza farsi sentire da sua madre, Giacomino scavalcò il davanzale e iniziò ad arrampicarsi sul possente tronco perché lui era sicuro che sulla sua cima avrebbe trovato quella fortuna che l’omino gli aveva promesso.
Giacomino saliva sempre più in alto cercando di non guardare mai in basso per non soffrire di vertigini.
Giunto in cima vide una lunga strada; vi si incamminò e dopo averla percorsa per diverso tempo si trovo dinanzi ad un castello.
Giacomino si fece avanti, bussò alla porta e un’enorme donna gli aprì.
“Scappa via di qui”, disse lei, “mio marito è un gigante e se scopre che tu sei salito fin quassù cercherà di prenderti”
“Oh, per favore, sia gentile. Ho tanta fame. Vorrei qualcosa da mangiare”, implorò Giacomino.
La moglie del gigante ebbe pietà di lui; lo fece accomodare in cucina e gli diede un po’ di pane e formaggio.
Il ragazzo aveva appena finito di mangiare quando udì un pesante rumore di passi che si avvicinavano e una voce tuonante che diceva:”Ucci, ucci,sento odor di cristianucci.
Che sia grande oppur piccino,io mi faccio un bel panino”.
“Poveri noi! E’ mio marito!” gridò la moglie del gigante.
“Svelto ragazzo, nasconditi nel forno!”
L’enorme donna impaurita cercò di calmare il marito e lo convinse che stava sbagliando.
“Devi aver annusato l’odore della tua minestra d’avena”, gli disse, mettendo a tavola la scodella del gigante.
Lui grugnì e si sedette a tavola. Quando ebbe finito di mangiare prese alcuni sacchetti dalla credenza della cucina e li rovesciò sul tavolo, facendone uscire diverse monete d’oro.
Cominciò a contarle e mentre contava si addormentò.
Giacomino aveva osservato tutto dall’oblò del forno e decise di approfittare di quel momento per salire sopra il tavolo ed impossessarsi di uno di quei preziosi sacchetti di monete d’oro cercando di allontanarsi alla svelta.
Giacomino e sua madre vissero a lungo senza stenti grazie a quell’oro, ma anche quello finì.
Allora Giacomino decise di tornare in cima al magico albero.
La moglie del gigante riconobbe immediatamente Giacomino e gli chiese cosa era successo a quel sacchetto di monete d’oro.
“Te lo dirò, se mi fai fare colazione”, disse Giacomino.
La donna lo fece entrare e gli offrì del cibo.
Poi si udì ancora quel pesante rumore di passi che si avvicinavano e Giacomino corse a nascondersi.
Dopo il pranzo la signora portò a suo marito la sua gallina preferita.
“Deponi le tue uova, piccola gallina”, comandò il gigante, e subito questa depose un uovo puro e luccicante.
Poi il gigante si addormentò.
Giacomino sgusciò fuori dal suo nascondiglio, prese tra le mani la meravigliosa gallina, uscì dal castello e si lasciò scivolare giù per l’enorme albero cadendo sano e salvo nel giardino di casa sua.
La mamma di Giacomino rimase sbalordita dalla preziosa gallina che deponeva uova d’oro.
“Non saremo mai più poveri!” esclamò.
Ma non passò troppo tempo che Giacomino decise di arrampicarsi in cima all’albero magico.
Sapeva però che la moglie del gigante non sarebbe stata contenta di vederlo ancora, perciò giudicò opportuno di non farsi vedere neanche da lei.
Entrò in cucina mentre la donna era intenta a lavare e si nascose dentro una grossa pentola.
Il gigante arrivò e, annusando l’aria urlò:”Ucci, ucci,sento odor di cristianucci”
Ma la moglie lo rassicurò come sempre e gli servì il pranzo. Il gigante ordinò poi a gran voce:”Moglie, portami l’arpa”.
Lei corse a prenderla e l’appoggiò sulla tavola.
“Suona, arpa!”, comandò il gigante, e l’arpa iniziò a suonare dolcemente fino a quando il suo padrone non si addormentò.
Giacomino uscì silenziosamente dal suo nascondiglio, saltò sul tavolo, si impadronì dell’arpa e scappò via.
Ma questa volta ebbe una sgradita sorpresa.
L’arpa chiamò ad alta voce:”Padrone! Padrone! Padrone!” e il gigante si svegliò.
Giacomino correva come il vento, ma il gigante, inferocito, gli era subito dietro.
Il ragazzo si aggrappò al tronco del grande albero di fagioli, ma così fece pure il gigante, tanto che per il trambusto sembrava di essere nel bel mezzo di una tempesta!
Giacomino saltò a terra per primo, ma anche il gigante stava per arrivare.
“Mamma”, urlò, “corri a prendere l’ascia!
“Presa in mano l’ascia Giacomino iniziò a colpire con forza il tronco dell’albero e, dopo alcuni colpi ben precisi, riuscì a spezzarlo.
Con un grande boato crollarono al suolo l’albero e il gigante, formando una buca talmente profonda che da essa nessuno avrebbe mai potuto risalire.
Il magico albero di fagioli non crebbe mai più e del resto ormai anche Giacomino e sua madre non ne avevano più bisogno perché l’arpa suonava meravigliosamente e la gallina continuava a produrre uova d’oro, quindi nessuno dei due sarebbe più stato povero.

Eskimo

Questa domenica in Settembre
non sarebbe pesata così
l’estate finiva più nature
vent’anni fa o giù di lì

Con l’incoscienza dentro al basso ventre
e alcuni audaci, in tasca “l’Unità”,
la paghi tutta, e a prezzi d’inflazione,
quella che chiaman la maturità

Ma tu non sei cambiata di molto
anche se adesso è al vento quello che
io per vederlo ci ho impiegato tanto
filosofando pure sui perché

Ma tu non sei cambiata di tanto
e se cos’è un orgasmo ora lo sai
potrai capire i miei vent’anni allora
e quasi cento adesso capirai

Portavo allora un eskimo innocente
dettato solo dalla povertà
non era la rivolta permanente
diciamo che non c’era e tanto fa

Portavo una coscienza immacolata
che tu tendevi a uccidere però
inutilmente ti ci sei provata
con foto di famiglia o paletò

E quanto son cambiato da allora
e l’eskimo che conoscevi tu
lo porta addosso mio fratello ancora
e tu lo porteresti e non puoi più

Bisogna saper scegliere il tempo
non arrivarci per contrarietà
tu giri adesso con le tette al vento
io ci giravo già vent’anni fa

Ricordi fu con te a Santa Lucia
al portico dei Servi per Natale
credevo che Bologna fosse mia
ballammo insieme all’anno o a Carnevale

Lasciammo allora tutti e due un qualcuno
che non ne fece un dramma o non lo so
ma con i miei maglioni ero a disagio
e mi pesava quel tuo paletò

Ma avevo la rivolta fra le dita
dei soldi in tasca niente e tu lo sai
e mi pagavi il cinema stupita
e non ti era toccato farlo mai

Perché mi amavi non l’ho mai capito
così diverso da quei tuoi cliché
perché fra i tanti, bella,
che hai colpito ti sei gettata addosso proprio a me

Infatti i fiori della prima volta
non c’erano già più nel sessantotto
scoppiava finalmente la rivolta
oppure in qualche modo mi ero rotto

Tu li aspettavi ancora ma io già urlavo che
Dio era morto, a monte, ma però
contro il sistema anch’io mi ribellavo
cioè, sognando Dylan e i provos

E Gianni ritornato da Londra
a lungo ci parlò dell’LSD
tenne una quasi conferenza colta
sul suo viaggio di nozze stile freak

E noi non l’avevamo mai fatto
e noi che non l’avremmo fatto mai
quell’erba ci cresceva tutt’attorno
per noi crescevan solo i nostri guai

Forse ci consolava far l’amore
ma precari in quel senso si era già
un buco da un amico, un letto a ore
su cui passava tutta la città

L’amore fatto alla boia d’un Giuda
e al freddo in quella stanza di altri e spoglia
vederti o non vederti tutta nuda
era un fatto di clima e non di voglia

E adesso che potremmo anche farlo
e adesso che problemi non ne ho
che nostalgia per quelli contro un muro
o dentro a un cine o lì dove si può

E adesso che sappiamo quasi tutto
e adesso che problemi non ne hai
che nostalgia, lo rifaremmo in piedi
scordando la moquette stile e l’Hi Fi

Diciamolo per dire, ma davvero
si ride per non piangere perché
se penso a quella ch’eri, a quel che ero,
che compassione che ho per me e per te

Eppure a volte non mi spiacerebbe
essere quelli di quei tempi là
sarà per aver quindic’anni in meno
o avere tutto per possibilità

Perché a vent’anni è tutto ancora intero
perché a vent’anni è tutto chi lo sa
a vent’anni si è stupidi davvero
quante balle si ha in testa a quell’età

Oppure allora si era solo noi
non c’entra o meno questa gioventù
di discussioni, caroselli, eroi
quel ch’è rimasto dimmelo un po’ tu

E questa domenica in Settembre
se ne sta lentamente per finire
come le tante via distrattamente
a cercare di fare o di capire

Forse lo stan pensando anche gli amici
gli andati, i rassegnati, i soddisfatti,
giocando a dire che si era più felici
pensando a chi si è perso o no a quei patti

Ed io che ho sempre un eskimo addosso
uguale a quello che ricorderai
io come sempre, faccio quel che posso
domani poi ci penserò se mai

Ed io ti canterò questa canzone
uguale a tante che già ti cantai
ignorala come hai ignorato le altre
e poi saran le ultime oramai

Mistero

Con gli occhi bene aperti chiediamo un po’ d’amore
alla persona che vorremmo fare rimanere,
e ci facciamo male se la pressione sale,
poche parole ci precipitan il morale giù
cos’è che ci trascina fuori dalla macchina?
cos’è che ci fa stare sotto ad un portone?

Cosa ci prende, cosa si fa, quando si muore davvero?
Mistero.

Il gioco si fa duro e non si puo’ dormire,
e non sappiamo più decidere se ripartire,
e batte forte il cuore anche per lo stupore
di non capire l’orizzonte che colore ha,
cos’è che ci cattura e tutto ci moltiplica?
cos’è che nella notte fa telefonare?
Quanto si chiede, quanto si dà, quando si ama davvero?
Mistero.

Abbiamo già rubato, abbiamo già pagato,
ma non sappiamo dire quello che sarebbe stato.
Ma pace non ne abbiamo, nemmeno la vogliamo,
nemmeno il tempo di capire che ci siamo già
cos’è che ancora ci fa vivere le favole?
chi sono quelli della foto da tenere?
Cosa si cerca quando si dà, quando si ama davvero?
Mistero

Sarai sincera dimmelo dimmelo?
Sarai sincero?

Il breve mestiere di vivere è il solo mistero che c’è.
Dipende solo da te: prendere la mano è facile,
la verità che la vita ti dà
è una fredda carezza nel silenzio che c’è.
Cos’è che ci trascina fuori dalla macchina?
Cos’è che ci fa stare sotto ad un portone?
Cosa ci prende, cosa si fa, quando si muore davvero?
Mistero.
Quanto si chiede, quanto si dà, quando si ama davvero?
Mistero.

Le tre domande

Un giorno, un certo imperatore pensò che se avesse avuto la risposta a tre domande, avrebbe avuto la chiave per risolvere qualunque problema:

• Qual è il momento migliore per intraprendere qualcosa?
• Quali sono le persone più importanti con cui collaborare?
• Qual è la cosa che più conta sopra tutte?

L’imperatore emanò un bando per tutto il regno annunciando che chi avesse saputo rispondere alle tre domande avrebbe ricevuto una lauta ricompensa. Subito si presentarono a corte numerosi aspiranti, ciascuno con la propria risposta.

Riguardo alla prima domanda, un tale gli consigliò di preparare un piano di lavoro a cui attenersi rigorosamente, specificando l’ora, il giorno, il mese e l’anno da riservare a ciascuna attività. Soltanto allora avrebbe potuto sperare di fare ogni cosa al momento giusto.
Un altro replicò che era impossibile stabilirlo in anticipo; per sapere cosa fare e quando farlo, l’imperatore doveva rinunciare a ogni futile svago e seguire attentamente il corso degli eventi.
Qualcuno era convinto che l’imperatore non poteva esse re tanto previdente e competente da decidere da solo quando intraprendere ogni singola attività; la cosa migliore era istituire un Consiglio di esperti e rimettersi al suo parere.
Qualcun altro disse che certe questioni richiedono una decisione immediata e non lasciano tempo alle consultazioni; se però voleva conoscere in anticipo l’avvenire, avrebbe fatto bene a rivolgersi ai maghi e agli indovini.

Anche alla seconda domanda si rispose nel modi più disparati.
Uno disse che l’imperatore doveva riporre tutta la sua fiducia negli amministratori, un altro gli consigliò di affidarsi al clero e ai monaci; c’era chi gli raccomandava i medici e chi si pronunciava in favore dei soldati.

La terza domanda suscitò di nuovo una varietà di pareri. Alcuni dissero che l’attività più importante era la scienza. Altri insistevano sulla religione. Altri ancora affermavano che la cosa più importante era l’arte militare.

L’imperatore non fu soddisfatto da nessuna delle risposte, e la ricompensa non venne assegnata.
Dopo parecchie notti di riflessione, l’imperatore decise di andare a trovare un eremita che viveva sulle montagne e che aveva fama di essere un illuminato. Voleva cercarlo per rivolgere a lui le tre domande, pur sapendo che l’eremita non lasciava mai le montagne e riceveva
solo la povera gente, rifiutandosi di trattare con i ricchi e i potenti. Perciò, rivestiti i panni di un semplice contadino, ordinò alla sua scorta di attenderlo ai piedi del monte e si arrampicò da solo su per la china in cerca dell’eremita.

Giunto alla dimora del sant’uomo, l’imperatore lo trovò che vangava l’orto nei pressi della sua capanna.
Alla vista dello sconosciuto, l’eremita fece un cenno di saluto col capo senza smettere di vangare. La fatica gli si leggeva in volto. Era vecchio, e ogni volta che affondava
la vanga per smuovere una zolla, gettava un lamento.
L’imperatore gli si avvicinò e disse: “Sono venuto per chiederti di rispondere a tre domande: qual è il momento migliore per intraprendere qualcosa? Quali sono le persone più importanti con cui collaborare? Qual è la cosa che più contasopra tutte?”.
L’eremita ascoltò attentamente, ma si limitò a dargli un’amichevole pacca sulla spalla e riprese a vangare.
L’imperatore disse: “Devi essere stanco. Sù, lascia che ti dia una mano”. L’eremita lo ringraziò, gli diede la vanga e si sedette per terra a riposare.
Dopo aver scavato due solchi, l’imperatore si fermò e si, rivolse all’eremita per ripetergli le sue tre domande. Di nuovo quello non rispose, ma si alzò e disse, indicando la vanga: , “Perché non ti riposi? Ora ricomincio io”. Ma l’imperatore continuò a vangare. Passa un’ora, ne passano
due.

Finalmente il sole comincia a calare dietro le montagne. L’imperatore mise giù la vanga e disse
all’eremita: ”Sono venuto per rivolgerti tre domande. Ma se non sai darmi la risposta ti prego di dirmelo, così me ne ritorno a casa mia”.
L’eremita alzò la testa e domandò all’imperatore: “Non senti qualcuno che corre verso di noi?”.
L’imperatore si voltò. Entrambi videro sbucare dal folto degli alberi un uomo con una lunga barba bianca che correva a perdifiato premendosi le mani insanguinate sullo stomaco. L’uomo puntò verso l’imperatore, prima di accasciarsi al suolo con un gemito, privo di sensi.
Rimossi gli indumenti, videro che era stato ferito gravemente. L’imperatore pulì la ferita e la fasciò servendosi della propria camicia che però in pochi istantifu completamente intrisa di sangue. Allora la sciacquò e rifece la fasciatura più volte, finché l’emorragia non si
fu fermata.

Alla fine il ferito riprese i sensi e chiese da bere. L’imperatore corse al fiume e ritornò con una brocca d’acqua fresca. Nel frattempo, il sole era, tramontato e l’aria notturna cominciava a farsi fredda. L’eremita aiutò l’imperatore a trasportare il ferito nella capanna e ad
adagiarlo sul suo letto. L’uomo chiuse gli occhi e restò immobile. L’imperatore era sfinito dalla lunga arrampicata e dal lavoro nell’orto. Si appoggiò al vano della porta e si addormentò. Al suo risveglio, il sole era già alto. Per un attimo dimenticò dov’era e cos’era venuto a fare. Gettò un’occhiata al letto e vide il ferito che si guardava attorno smarrito. Alla vista dell’imperatore, si mise a fissarlo intensamente e gli disse in un sussurro: “Vi prego, perdonatemi”. “Ma di che cosa devo perdonarti?”, rispose l’imperatore.
‘Voi non mi conoscete, maestà, ma lo vi conosco. Ero vostro nemico mortale e avevo giurato di vendicarmi perché nell’ultima guerra uccideste mio fratello e vi impossessaste dei miei beni. Quando seppi che andavate da solo sulle montagne in cerca dell’eremita, decisi di tendervi un agguato sulla via del ritorno e uccidervi. Ma dopo molte ore di attesa non vi eravate ancora fatto vivo, perciò decisi di lasciare il mio nascondiglio per venirvi a cercare. Ma invece di trovare voi mi sono imbattuto nella scorta, che mi ha riconosciuto e mi ha ferito. Per fortuna, sono riuscito a fuggire e ad arrivare fin qui. Se non vi avessi incontrato, a quest’ora sarei morto certamente.
Volevo uccidervi, e invece mi avete salvato la vita! La mia vergogna e la mia riconoscenza sono indicibili. Se vivo, giuro di servirvi per il resto dei miei giorni e di imporre ai miei figli e nipoti di fare altrettanto. Vi prego, concedetemi il vostro perdono”.

L’imperatore si rallegrò infinitamente dell’inattesa riconciliazione con un uomo che gli era stato nemico. Non solo lo perdonò, ma promise di restituirgli i beni e mandargli il medico e i servitori di corte per accudirlo finché non fosse completamente guarito. Ordinò alla sua scorta di riaccompagnarlo a casa, poi andò in cerca dell’eremita. Prima di ritornare a palazzo, voleva riproporgli le tre domande per l’ultima volta. Lo trovò che seminava nel terreno dove il giorno prima avevano vangato.

L’eremita si alzò e guardò l’imperatore. “Ma le tue domande hanno già avuto risposta”.
“Come sarebbe?”, chiese l’imperatore, perplesso. “Se ieri non avessi avuto pietà della mia vecchiaia e non mi avessi aiutato a scavare questi solchi, saresti stato aggredito da quell’uomo sulla via del ritorno. Allora ti saresti pentito amaramente di non essere rimasto con me. Perciò, il momento più importante era quello in cui scavavi i solchi, la persona più importante ero io, e la
cosa più importante da fare era aiutarmi. Più tardi, quando è arrivato il ferito, il momento più importante era quello in cui gli hai medicato la ferita, perché se tu non lo avessi curato sarebbe morto e avresti perso l’occasione di riconciliarti con lui. Per lo stesso motivo, la persona più importante era lui e la cosa più importante da fare era medicare la sua ferita. Ricorda che c’è un
unico momento importante: questo.

Il presente è il solo momento di cui siamo padroni. La persona più importante è sempre quella con cui siamo, quella che ci sta di fronte, perché chi può dire se in futuro avremo a che fare con altre persone? La cosa che più conta sopra tutte è rendere felice la persona che ti sta accanto, perché solo questo è lo scopo della vita”.