Tancredi e Ghismunda

Tancredi, principe di Salerno ha una figlia di nome Ghismunda. Tancredi ama tanto Ghismunda che non vuole che lei si sposi ma alla fine deve accettare il suo matrimonio. Poco dopo però il marito di Ghismunda muore e così la figlia rimane vedova e torna da lui.
Ghismunda, dato che è una donna giovane, ha voglia di amare. Pensa che sia più giusto amare di nascosto, cioè avere un amante, perché il padre non vuol che lei lo abbandoni. Si innamora, tra tanti giovani, del valletto Guiscardo, e lui di lei. I due si incontrano di nascosto e lei non fa sapere a nessuno la storia con lui, ma un giorno viene scoperto dal padre e subito Guiscardo viene imprigionato. Tra la figlia e il padre c’è una lunga discussione: Ghismunda pensa che non è importante se l’uomo da amare è nobile di nascita o no ma è importante che sia nobile d’animo; Tancredi non la pensa allo stesso modo ma pensa che è nobile chi nasce nobile.
Ghismunda promette che si suiciderà se il padre uccide Guiscardo, ma lui non le crede, lo uccide e porta il cuore di Guiscardo a Ghismunda, lei bacia il cuore e beve il veleno.
Alla fine Tancredi si pente di non avere ascoltato la figlia. Mette Ghismunda e Guiscardo insieme nella tomba e rende pubblico il loro amore, come avrebbe voluto Ghismunda.

La badessa e le braghe

Ci sono molte persone che vogliono punire gli errori degli altri e che poi vengono smascherati dalla fortuna. Come è stato per una monaca.
In un famosissimo convento in Lombardia c’era una monaca elegante e bella, di origini nobili; questa monaca si chiamava Isabetta.
Isabetta era innamorata di un giovane bellissimo e questo ricambiava il sentimento.
Il giovane veniva a trovare Isabetta in convento ma in questo modo viene visto da altre monache. Una monaca, che era invidiosa, decide di dire tutto alla badessa (la suora più importante) che si chiamava Usimbalda; dato che non voleva che Isabetta negasse, decide di avvertire la badessa quando Isabetta si trovasse con il giovane, in questo modo la badessa li scoprirebbe insieme.
Una notte il giovane tornò in convento da Isabetta e le altre monache corsero a chiamare la badessa.
Cominciarono a bussare alla porta della badessa dicendole che Isabetta era in camera con un giovane.
La badessa però era in compagnia di un prete e dato che aveva paura che le monache entrassero in camera e la vedessero con lui, si affretta a vestirsi; ma invece di mettere il velo intorno alla testa, per sbaglio si mette le braghe (mutande) del prete e corse con le altre monache da Isabetta.
Nella fretta le altre monache non si erano accorte delle braghe, andarono da Isabetta ed entrarono nella sua stanza. La badessa gridava “Dove è questa maledetta da Dio?” e poi quando la vide a letto con il giovane si sedette e cominciò a parlarle:
“Tu hai portato la vergogna in questo convento, per colpa tua ora si dirà che noi non siamo donne oneste e pure!” e continuò ad insultarla. Le altre monache guardavano Isabetta e Isabetta abbassava la testa mentre il giovane era lì vicino.
Ad un tratto Isabetta alzò la testa e vide le braghe e disse alla badessa:
“Voi avete ragione, però per favore allacciatevi la cuffia (il velo che hanno in testa), e poi mi direte quello che volete”. La badessa la guardava e non capiva, poi si toccò il velo e capì mentre anche le altre monache ora la guardavano. La badessa cambiò tono e disse che era difficile resistere ai piaceri della carne e che ogni monaca poteva andare con un ragazzo.
Così la badessa tornò a letto con il prete, Isabetta con il giovanotto e le altre monache, che non avevo l’amante, dovettero cercarlo.

Federigo degli Alberighi

Federigo degli Alberighi si innamora di monna Giovanna e spende inutilmente tutto quello che ha per conquistarla.
Rimasto senza niente, Federigo si ritira in una piccola casa di campagna con la sua ultima ricchezza: un bellissimo falcone (come un’aquila), con il quale cacciava.
Monna Giovanna rimane vedova e con un figlio ormai già grandicello e va, come faceva di solito, a passare l’estate in una casa vicino a quella di Federigo.
Intanto nel giovane figliolo cresce il desiderio di avere il falcone di Federigo, e per questo si ammala.
La madre, che ama il proprio figlio più di qualunque altra cosa, tenta di accontentarlo nella speranza che guarisca.
Il giorno seguente va, in compagnia di un’altra donna, dal buon Federigo che gentilmente l’accoglie. Trovandosi, però, senza qualcosa da cucinare che fosse adatto alla donna che amava, pensa di far cucinare il suo falcone a cui voleva molto bene.
Finito il pranzo, monna Giovanna fa la sua richiesta e il povero Federigo si dispera non potendo accontentare la donna.
Dopo alcuni giorni muore il figlio di monna Giovanna e, rimasta sola, decide di sposarsi con Federigo degli Alberighi dal quale avrebbe avuto solo tanto amore.

Andreuccio da Perugia

Andreuccio si trova a Napoli con una borsa piena di cinquecento fiorini con i quali avrebbe dovuto comperare un cavallo, dato che a Napoli c’era un buon mercato.
Una donna, astuta e furba, vista la ricchezza che possedeva quel giovane, decide di sottrargliela pensando ad una beffa.
La bella donna invita Andreuccio a casa sua e gli dice di essere sua sorella che lui non sapeva di avere. La donna racconta alcuni fatti reali e credibili e riesce a convincere il povero Andreuccio.
Dopo esser stato ripetutamente invitato a passar la notte in quella casa, Andreuccio accetta e viene messo in una stanza. Dopo averla raggiunta e essersi spogliato, Andreuccio si dirige verso il bagno dove sfortunatamente inciampa e cade a terra dolorante.
Approfittando dell’occasione, la donna entra nella stanza e ruba la ricca borsa.
Il povero Andreuccio, trovatosi rinchiuso nel bagno, trova una via di uscita sopra la sua testa e scavalcando un muro è fuori.
Si trova, però, senza i suoi averi, allora bussa e grida alla porta svegliando un grosso e pauroso uomo che affacciandosi minaccia il giovane che ha paura e scappa.
Per la strada incontra due “briganti” che volevano profanare (cioè entrare in un luogo sacro per rubare) una tomba nella chiesa dove c’era il corpo di un ricco arcivescovo che era stato seppellito con un tesoro.
Il giovane partecipa pensando di poter guadagnare qualcosa, ma sapeva anche che i due l’avrebbero sicuramente tradito. Aperta tomba i due costringono Andreuccio ad entrarci e lui, furbo, prende subito l’anello e passa fuori dalla tomba tutto il resto tranne quello, sapendo che i due l’avrebbero chiuso dentro. E quelli infatti fanno così.
Andreuccio si ritrova rinchiuso, ma ad un certo punto sente delle voci e tra queste voci c’è quella del prete che, per mostrare di avere coraggio, mette le gambe nella tomba ma si sente afferrare, grida per la paura e salta fuori. Tutti scappano lasciando l’apertura che permette ad Andreuccio di uscire. Il buon Andreuccio riesce così ad essere ripagato della beffa subita con uno stupendo anello di valore.

Lisabetta da Messina

Questa novella parla di Elisabetta, una giovane e bella ragazza, che viveva a Messina insieme ai suoi tre fratelli. I fratelli erano mercanti ed erano diventati ricchi per l’eredità del padre.
Elisabetta, nonostante fosse una bella ragazza, non si era ancora sposata, ma ben presto s’innamorò di un aiutante dei fratelli di nome Lorenzo, il quale dimostrò subito di avere gli stessi sentimenti di Elisabetta.
Una sera uno dei tre fratelli scoprì casualmente la relazione tra i due ragazzi e, quando la mattina seguente ne parlò con gli altri, tutti insieme decisero di far finta di non sapere nulla e di ucciderlo perché Lorenzo, secondo loro, era una vergogna per la sorella e per tutta la famiglia.
Così un giorno i tre portarono Lorenzo fuori città, l’uccisero e poi lo seppellirono; tornati in città dissero di averlo mandato lontano per alcuni compiti e, dato che lo facevano spesso, gli altri ci crederono.
Elisabetta, vedendo che Lorenzo non tornava, cominciò a chiedere sue notizie ai fratelli in maniera sempre più insistente, finché una notte lui le apparve in sogno: le disse che i suoi fratello lo avevano ucciso, e che perciò non poteva più tornare e le disse il luogo in cui era sepolto e poi scomparve.
Il giorno seguente, senza avere il coraggio di affrontare i fratelli, Elisabetta andò verso il luogo che Lorenzo le aveva indicato in sogno e trovò il corpo. Sapendo di non poterlo seppellire come avrebbe voluto, tagliò la testa e la portò con sé.
Arrivata casa mise la testa dell’amato in un vaso, riempì questo di terra e vi piantò numerosi rami di basilico salernitano, che innaffiò per lungo tempo con le proprie lacrime; questo comportamento fu notato da alcuni vicini, i quali informarono i tre fratelli.
I tre fratelli, dopo aver più volte rimproverato la ragazza, decisero di sottrarle il vaso.
Elisabetta continuò a chiedere con insistenza la restituzione del vaso, continuando a piangere e ammalandosi. I fratelli, incuriositi da queste continue richieste, guardarono all’intero del vaso e subito trovarono sul suo fondo i resti della testa di Lorenzo, e per paura che questo fatto si venisse a sapere, trasferirono tutti i propri affari a Napoli.
Nel giro di poco tempo, Elisabetta morì continuando a domandare del vaso, e con lei morì il suo grande amore.

Ser Ciappeletto

“Ser Ciappelletto” è la novella iniziale della prima giornata del Decameron. Pampinea, “regina”della giornata, affida a Panfilio il compito di cominciare il racconto della storia. Panfilio fa un’introduzione e dice che la realtà è un insieme di “cose temporali”, quindi subiscono il passare degli anni e sono destinate a morire. Mentre le cose sono destinare a morire e sono fragili, Dio è potente e grande. Dio aiuta gli uomini non perché se lo meritano ma perché è buono.
Gli uomini non possono parlare direttamente a “Lui” e perciò pregano le persone che quando erano vive facevano quello che Dio voleva. Queste persone sono poi diventate sante. Però a volte succede che le persone si sbagliano e cominciano a pregare delle persone che sono dannate, come Ser Ciappelletto.

Ser Ciappelletto è descritto da Boccaccio come “il peggior uomo che mai nascesse” ma la sua comunità lo considera santo.
Egli è un falsario pronto a cambiare la realtà in tutti i modi per avere dei vantaggi, è un abile bugiardo, è uno senza pietà, è un assassino, bestemmiatore, traditore della Chiesa e della religione (che naturalmente non segue), ladro, ruffiano nei confronti di uomini e donne ed è anche un ubriacone: un uomo abituato al peccato e ai piaceri.
Cepparello da Prato era conosciuto anche come Ser Ciappelletto. Cepparello lavora da Musciatto Franzesi e gestisce i suoi affari in tutta la regione. Durante il suo viaggio, viene accolto in casa di due fratelli usurai e qui, però, si sente male. I due fratelli, hanno paura che Ser Ciappelletto morisse senza l’estrema unzione (è un sacramento che il prete dà a chi sta per morire), ma dato che lui era un peccatore come avrebbe potuto andare da un prete?
Ser Ciappelletto però sente i due fratelli parlare e dice che devono stare tranquilli.
Quindi dice di chiamare un prete, il più santo che ci fosse, perché lui voleva confessarsi (cioè dire i suoi peccati davanti al prete che rappresentava Dio).
Quando il prete arriva, però, Ser Ciappelletto gli fa credere di essere un uomo religioso, che va sempre a messa, un buon cristiano che dà sempre i soldi ai poveri e che segue sempre le leggi di Dio. Il prete rimane colpito da tanta purezza e dopo la morte di Ser Ciappelletto comincia a fare le sue lodi, dicendo che era un buon cristiano.
I due usurai intanto preparano i funerali di Ciappelletto usando i soldi che erano suoi. Al funerale partecipano tante persone che erano convinte delle cose che erano state dette su Ciappelletto. Quindi tutti pensano che Ser Ciappelletto fosse santo.

In questa novella il protagonista riesce a vincere grazie alla parola. Con le parole fa credere a tutti di essere santo e tutti ci credono. E’ anche una novella anti-cristiana perché Dio non interviene per far vedere che Cepparello è un bugiardo. E’ la prima novella della prima giornata e il tema è libero.

Giovanni Boccaccio

Nasce nel 1313. E’ appassionato di Dante e Petrarca.
Il padre è bancario, vive a Napoli alla corte degli Angioini; gli Angioini erano francesi ma per un periodo regnano anche su Napoli. Nella corte, come sappiamo, oltre al re ci sono i cortigiani, i nobili, c’è un ambiente raffinato e colto. La corte è autosufficiente, non si ha bisogno di uscire, i divertimenti dei nobili sono dentro la corte, si fanno i banchetti, si parla. Chi vive in una corte non è costretto a sporcarsi le mani.
Boccaccio apprezza tutto questo. Si trova a suo agio a corte. Frequenta molto la biblioteca della corte angioina, vive tra feste e incontri come i nobili.
Ad un certo punto però la banca dove lavorava il padre fallisce. Le banche prestavano denaro e chiedevano interessi, a volte succedeva che i nobili a cui prestavano il denaro non ridavano i soldi e quando erano in tanti la banca rischiava di fallire.
Il padre di Boccaccio deve lasciare la corte e tornare a Firenze. Firenze è una città borghese, bisognava lavorare per vivere, qui Boccaccio non ha più il benessere che aveva a corte.
Boccaccio poi prenderà i voti, diventando chierico, per avere uno stipendio.
E’ nel periodo fiorentino che Boccaccio scrive il Decameron.
Il Decameron è un’opera in prosa, quindi mentre Petrarca è importante per la poesia, Boccaccio è importante per la prosa.
Abbiamo già visto con Petrarca che si comincia ad affermarsi una mentalità antropocentrica, cioè il pensiero in cui l’uomo è al centro.
Petrarca e Boccaccio usano un volgare fiorentino, Dante, come sappiamo, non usava una sola lingua, sperimenta il volgare, usa parole straniere, inventa parole nuove.

Bisogna ricordare che esistono due mondi:
La classe borghese: per vivere si deve lavorare, studia la realtà (per produrre, per vendere); capisce i bisogni e si piega a questi bisogni
La nobiltà: non si deve lavorare per vivere, sta nella sua corte, nel suo castello e l’unico problema che ha è passare il tempo; quindi leggono, ascoltano e recitano opere.

Decameron

Viene dal greco deca + emeron che vuol dire “dieci giorni”. Il Decameron si svolge in dieci giorni, è una raccolta di novelle (brevi storie). Forse Boccaccio conosceva e si è ispirato a Le mille e una notte.

Immagina dieci giovani nel 1348 (è l’anno in cui muore Laura per la peste) che durante l’epidemia di peste si incontrano a Santa Maria Novella, una chiesa di Firenze.
Spaventati dalla peste vogliono allontanarsi da Firenze e vanno nelle colline Fiesolane, vicino Firenze.
Questi dieci giovani decidono di trascorrere (passare) la giornata raccontando a turno delle novelle.
L’obiettivo delle novelle è, come si vede, l’intrattenimento, il passare il tempo.
Ogni giorno viene eletto un re che sceglie il tema della giornata (ad esempio la beffa, la storia d’amore, l’amore infelice ecc…).
Il re comincia poi altri otto raccontano ognuno una novella al giorno su quel tema. Un giovane, che si chiama Dioneo, può raccontare la novella sul tema libero.

Forse Dioneo rappresenta lo stesso Boccaccio. Dione nella mitologia era la madre di Venere.

Dieci giovani vuol dire dice novelle al giorno, i giorni sono dieci quindi abbiamo cento novelle.
Questa è la cornice del Decameron, cioè come è costruita l’opera. Boccaccio non vuole fare delle novelle che diventino delle opere separate ma le unisce usando una cornice, cioè una struttura che le tenga insieme. La cornice sono i giovani che raccontano.
Le novelle sono ambientate in città diverse. In questi anni si viaggia molto, ad esempio Marco Polo, che era un veneziano, arriva in Cina.
Nelle novelle ci sono molti borghesi dato che per Boccaccio non sono meno importanti dei nobili. Ci sono anche le altre classi sociali. Boccaccio nelle novelle mette tutto l’universo umano: i ricchi, i poveri, i nobili, le donne, i contadini, l’amore spirituale, l’amore carnale (con il sesso), troviamo il mercante, l’imbroglione, il furbo, l’aggressivo ecc…
Boccaccio racconta anche tutti gli aspetti dell’amore e l’immagine del peccato non si sente in lui. C’è l’amore cortese e l’amore fisico. Il sesso viene descritto anche nei dettagli per questo oggi in italiano quando diciamo “boccaccesco” vuol dire volgare.
Non c’è l’idealizzazione della realtà, cioè la realtà non è vista come qualcosa di astratto o pensato ma viene descritta in modo reale, vivo e crudo. Boccaccio rappresenta la realtà nel bene e nel male

Il Decameron è dedicato alle donne: Boccaccio vuole consolarle dalle sofferenze d’amore. Gli uomini quando soffrono per amore possono distrarsi, ci sono tanti divertimenti, ma per le donne no.
Il pubblico del Decameron è più grande del pubblico della Divina Commedia.

Boccaccio è ateo (cioè non crede in Dio)? No, Boccaccio è laico: considera la vita terrena importante quanto la vita dopo la morte, quindi realizza progetti “terreni” e si diverte. Dante, invece, vive in funzione della vita dopo la morte.

Nelle novelle torna il concetto di Fortuna. La fortuna è un concetto (idea) pagano, è una forza superiore che però, per Boccaccio, non c’entra niente con Dio.
Per Boccaccio ci sono due forze che muovono le azioni nel mondo:
la fortuna (che non è religiosa)
l’amore

La peste è descritta in modo realistico.

Bisogna notare che la cornice del Decameron (cioè i dieci giorni che si riuniscono) rappresenta la corte, è una realtà ideale, una realtà cortese. Mentre le novelle che raccontano rappresentano una classe più bassa, una classe che deve lavorare per andare avanti, è una realtà più concreta (più reale).

Novelle:
» Ser Ciappeletto
» Lisabetta da Messina
» Federigo degli Alberighi
» La badessa e le braghe
» Andreuccio da Perugia
» Tancredi e Ghismunda

Amore in Dante, Cavalcanti e Guinizelli

Guido Guinizelli: Secondo la tradizione cortese, l’amore di Guinizelli ha il suo luogo nel “cor gentile”. La gentilezza di cui parla il poeta è la nobiltà d’animo, l’elevatezza del pensiero, la disposizione del carattere verso la virtù, la sensibilità e la delicatezza, la capacità di provare sentimenti profondi.
Al cor gentil rempaira empre amore è la lirica di Guinizelli che è considerata il manifesto dello stil novo.
La donna accende l’amore nel cuore dell’uomo. La donna ha l’aspetto di un angelo e ha le capacità di migliorare il cuore dell’uomo e di disporlo alla virtù. Ma la donna anche se sembra un angelo non può portare l’amante all’amore che viene da Dio.
In Guinizelli lo scontro tra amore erreno e fede in Dio non si risolve. Le lodi vanno rivolte e Dio e non alla donna.

Guido Cavalcanti: in Cavalcanti c’è l’idea di amore come passione, tormento, sentimento travolgente che la ragione non può conoscere né controllare. L’impotenza (cioè il fatto che non ce la fa) della ragione provoca nel poeta paura e angoscia.
Anche in Cavalcanti la donna sembra un angelo ma non può elevare l’uomo a Dio.Di fronte alla donna il poeta è sconvolto dalla sua bellezza oppure è tormentato dall’amore che gli fa immaginare la morte.

Dante nella Vita Nova: Nella prima parte della Vita Nova Dante riprende il concetto di “cor gentil” di Guinizelli e la visione dell’amore come sofferenza di Cavalcanti.
Ma dopo che Beatrice non lo saluta (perché credeva che Dante si innamorasse di tante ragazze) e dopo il “gabbo” (quando Beatrice lo prende in giro perché Dante è svenuto davanti a lei) la concezione dell’amore in Dante cambia. L’amore per Beatrice diventa spirituale, mistico: Beatrice è una creatura che è tra il poeta e Dio. Al centro della poesia non c’è più la sofferenza dell’amante ma la celebrazioni delle doti spirituali dell’amata.
Lo scontro tra amore e fede si risolve ma si deve rinunciare all’amore terreno.

Il dolce stil novo

Il dolce stil novo nasce verso la fine del Duecento tra Bologna e Firenze. Nasce quindi in un ambiente comunale. Il comune è molto dinamico (vivace, vitale, vivo, con molti eventi), ci sono scontri interni (come tra i guelfi e i ghibellini), la società cambia molto velocemente. I poeti non sono uomini di corte (la corte è la residenza del re), ma sono persone che sono attive nella società.
Lo stilnovo nasce dopo le esperienze della lirica provenzale e della scuola siciliana.
E’ Dante che dà il nome a questo nuovo stile nel fare poesia.
Dante dà una definizione del dolce stil novo nel canto XXIV del Purgatorio:

I’mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’è ditta dentro vo significando.

Cioè: “Io sono uno di quelli che quando amore lo ispira, scrive, e do un significato a quello che l’amore detta da dentro”

Quindi la poesia sarebbe uno scrivere direttamente e immediatamente quello che ispira l’amore.
Ma l’amore non è un amore carnale e sensuale dell’amor cortese. L’amore dello stilnovo è un amore spirituale, è un amore con la “A” maiuscola, appunto. L’amore permette al poeta di raggiungere un livello più alto di spiritualità.
Rispetto alla scuola siciliana e all’amor cortese cambia anche la figura della donna. Infatti nello stilnovo la donna è una figura angelica, è una donna-angelo. E’ l’amore per lei che porta il poeta alla salvezza. E’ un amore che rende puri.
Guido Guinizelli per primo parla della donna-angelo nella canzone “Al cor gentile rempaira sempre amore”.
E’ importante anche il fatto che cambia il tipo di “gentilezza” (gentile = nobile). Infatti ora per nobiltà non si intende una classe sociale, i nobili veri e propri, la nobiltà di sangue; ora con nobiltà si intende nobiltà d’animo, nobiltà di cuore.
L’uomo dal cuore nobile è un uomo in cui l’amore ispira. E’ un uomo leale (cioè fa quel che dice), è onesto, ama la giustizia, non è schiavo della passione e rispetta gli altri.
Lo stilnovo è chiamato dolce perché il linguaggio è elegante e musicale e si parla di amore spirituale.

Autori importanti sono: Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti e Dante

Terenzio

Molte cose che sappiamo su Terenzio sono state scritte da Svetonio nel De viris illustribus.
Il nome completo di Terenzio è Publius Terentius Afer e, come dice il cognome Afer, sappiamo che è di origini libiche. Terenzio nasce però a Cartagine tra il 195 e il 185 a.C.
Viene a Roma quando è ancora un ragazzo. Essendo figlio di uno schiavo va presso il senatore Terenzio Luciano che per l’intelligenza e la bellezza lo libera e gli dà il suo nomen.
Terenzio frequenta gli ambienti aristocratici e diventa amico del giovane Scipione e di Polibio.
Nel 166 a.C. viene rappresentata la sua prima commedia, l’Andria.

Terenzio non ha un buon rapporto con il pubblico così come l’aveva avuto Plauto.
Viene accusato di plagio (cioè di aver copiato), di aver usato la contaminatio (contaminatio vuol dire “mischiare sporcando”, questo avviene quando un autore mischia due opere precedenti) e di aver prestato il suo nome per le commedie scritte da altre persone.
Ritornando dalla Grecia nel 159 a.C. la sua nave affonda ed egli scompare con le sue opere.

Le sue commedie erano raccolte in codici e questi erano preceduto dalle didascalie. Nelle didascalie vengono riportati i dati sulle festività dove le sue commedie venivano rappresentate, oppure sugli strumenti musicali usati, sull’autore delle musiche e il nome del capocomico. Queste didascalie sono utili oggi per avere le informazioni sulle commedie di Terenzio.

Le commedie

Terenzio aiuta la cultura romana ad essere meno provinciale. Egli, per scrivere le sue commedie, prende esempio dall’autore greco Menandro.
Terenzio non è molto interessato alla storia e alle azioni ma è più interessato a parlare dei sentimenti e del carattere dei personaggi. La storia comunque si svolge in maniera rapida e gli stessi attori non sono mai per molto tempo sul palcoscenico. In questo modo Terenzio cerca di tenere viva l’attenzione del pubblico che altrimenti si sarebbe annoiato. In Plauto c’è molto movimento nelle commedie, in Terenzio invece c’è più immobilità e per questo le sue commedie sono più difficili da seguire.
Questo tipo di commedia però non aveva molto successo sul pubblico romano che preferiva le battute più dirette e la comicità immediata.
I personaggi di Terenzio hanno una buona conoscenza di se stessi e riflettono su quel che succede in maniera filosofica.
Cambia il concetto dell’humanitas, infatti in Terenzio la nobiltà d’animo non corrisponde alla nobiltà di sangue o di ricchezza e anche le prostitute e i servi possono essere generosi e sacrificarsi per gli altri. Aiutare gli altri diventa così un valore “umano” molto importante. L’uomo ha fiducia in se stesso e si considera importante. L’uomo vale molto e sa che gli altri valgono molto.
Mentre in Plauto i personaggi erano maschere, dato che i personaggi avevano sempre gli stessi comportamenti (ad esempio la prostituta cercava sempre di ingannare, il vecchio era sempre avaro, il giovane era innamorato ma non sapeva come fare, il servo era intelligente e cercava di ingannare il signore), in Terenzio i personaggi sono molto complessi. Perde di importanza l’inganno e, di conseguenza, perde di importanza il servo furbo. In Plauto si parla quindi di maschere mentre in Terenzio si parla di tipi.
C’è uno scontro tra vecchi e giovani: i padri non obbligano i giovani a fare quello che vogliono loro ma sono saggi, maturi e autorevoli. I giovani (che rappresentano la nuova cultura che si afferma a Roma a contatto con la Grecia) si ribellano ai vecchi (che rappresentano le tradizioni, il mos maiorum).
In Terenzio c’è la fortuna che è un elemento esterno che spesso decide al posto dell’uomo.
In Terenzio c’è quasi una “chimica dei sentimenti”, cioè egli cerca di mostrare come reagirà un certo personaggio, con un carattere e una educazione particolari, in una certa situazione. Il risultato serve a far riflettere gli spettatori.
La lingua in cui scrive Terenzio è poi una lingua molto raffinata ed elegante e i toni sono semplici e tranquilli mentre Plauto preferiva un linguaggio più diretto ed espressivo.
C’è una riduzione dell’elemento musicale e un bilanciamento dei personaggi in scena.
Cambia la funzione del prologo. Il prologo in Plauto serviva a dare agli spettatori delle informazioni importanti per seguire la storia. In Terenzio il prologo c’è sempre ma serve all’autore per comunicare con il pubblico.
In questo modo il pubblico comincia a vedere lo spettacolo senza sapere di che cosa si parli e questo genera una maggiore curiosità.
Tra le commedie di Terenzio ricordiamo: Andria (“la ragazza di Andro”), Hecyra (“La suocera”), Heautontimorumenos (“Il punitore di se stesso”), Eunuchus (“L’eunuco”) e Adelphoe (“I fratelli”).

Andria

Questa commedia è ripresa dal dramma scritto da Menandro.
La commedia parla di Glicerio, una ragazza che viene da Andro e va ad Atene.
Un ragazzo che si chiama Panfilo si innamora di lei. Panfilo però è costretto dal padre a sposare Filumina.
Glicerio però rimane incinta di Panfilo e abbandona il figlio davanti alla casa di Cremete, il padre di Filumina. Cremete, quando scopre di chi è quel bambino, proibisce a Panfilo di sposare Filumina.
Però poi si scopre che anche Glicerio è sua figlia e così la fa sposare con Panfilo.

Hecyra

Panfilo è un giovane di Atene ed ama Bacchide, una prostituta. I suoi genitori però vogliono che sposi Filumina.
Panfilo sposa Filumina ma continua a vedere Bacchide. Panfilo deve partire e lascia la moglie Filumina con sua madre Sostrata.
Filumina torna da sua madre perché è incinta, infatti era stata violentata da un uomo al buio.
Quando Panfilo torna discute con Filumina. Bacchide va a casa degli sposi e dice che Panfilo non va più da lei ma si scopre che la prostituta ha un anello che era stato rubato a Filumina dall’uomo che l’aveva violentata. Bacchide dice che glielo ha dato Panfilo. Quindi si scopre che Panfilo è l’uomo che ha violentato Filumina e si risolve tutto.

Heautontimorùmenos

Menedemo è un padre severo e discute con il figlio Clinia perché Clinia si è innamorato di Antifila, una giovane povera. Clinia non sopporta più di discutere e parte come soldato. Il padre si pente e va a vivere in campagna e si mette a fare lavori faticosi come punizione. Il suo vicino Cremete cerca di consolarlo.
Clinia dopo tre mesi torna di nascosto e va a vivere da Clitifone, il figlio di Cremete. Clitifone è innamorato di Bacchide, una prostituta.
Clitifone e Clinia cercano di ingannare Cremete e mostrano Bacchide dicendo che è Antifila mentre la vera Antifila finge di essere la serva di Bacchide.
La moglie di Cremete però vede che la serva di Bacchide ha un anello e questo anello era quello che lei aveva dato a sua figlia quando l’aveva abbandonata. Quindi la moglie di Cremete scopre che la vera Antifila è in realtà la figlia di Cremete. Nello stesso tempo Cremete scopre che Bacchide è l’amante di Clitifonte.
La situazione ora è al contrario: è Menedemo che deve consolare Cremete.
Alla fine Clinia può sposare Antifila, che ora non è più povera mentre Cltifone lascia Bacchide e si sposa con una ragazza che sceglie il padre.

Plauto

Tito Maccio Plauto nasce fra il 254 e il 251 a.C. Queste informazioni le abbiamo da Cicerone che ha scritto che la commedia Pseudolus di Plauto, rappresentata nel 191 a.C., viene scritta quando Plauto era già senex, cioè aveva più di sessant’anni.
Nasce a Sarsina, un piccolo centro che in quel tempo era umbro, oggi è in Romagna. Sarsina era stata sottomessa dai Romani nel 266 a.C.
I tre nomi di Plauto non sono come i classici nomi romani, cioè prenomen-nomen-cognomen. Questi nomi di Plauto sono l’unione del prenome con due cognomi, cioè due soprannomi: Maccius, che ricorda la parola Maccus, cioè “lo sciocco” e Plautus che vuol dire “piedi piatti”. Forse però con “piedi piatti” si intendeva l’attore della farsa che recitava senza il coturno, quindi a piedi nudi.
Abbiamo poche notizie certe sulla vita di Plauto. Sappiamo che si trasferisce a Roma da giovane e che inizia come attore e poi diventa capocomico in una compagnia teatrale.
Aulo Gellio ci dice che Plauto avrebbe perso tutte le sue ricchezze con il commercio e per questo comincia a lavorare come servo in un mulino. Mentre lavora nel mulino inizia a scrivere le sue commedie.
Queste informazioni però non sappiamo se sono vere. Infatti i latini spesso erano convinti che un autore, nelle sue opere, potesse parlare solo di ciò che aveva vissuto. Quindi prendono queste informazioni dalle opere di Plauto. Però noi non sappiamo se sono certe.
Plauto è il primo autore latino a scrivere solo opere di un certo tipo, in questo caso parliamo delle palliate.
Plauto scrive moltissime commedie e molte opere si pensa le abbia scritte lui anche se non si è certi. E’ Varrone, uno scrittore latino, a fare una lista di commedie che sicuramente sono di Plauto. Queste opere della lista prendono il nome di “commedie varroniane”.

Caratteristiche della commedia di Plauto

Come tutti gli spettacoli teatrali, la commedia veniva rappresentata durante particolari feste religiose. A vedere la commedia andava un grande numero di persone.
Il pubblico era costituito soprattutto da schiavi, mercanti, contadini, soldati, cortigiane che volevano divertirsi e dimenticare i pensieri della giornata.
Ed è per questo motivo che è nata la commedia plautina. Plauto rappresenta un mondo vivo e attuale, deformato.
Non c’è critica alla politica e alla società. Nelle commedie di Plauto manca la nobilitas e i protagonisti sono le stesse persone che fanno il pubblico.
La commedia non era divisa in atti ma era un drama continuum.
La commedia è divisa in parti recitate (dette deverbia) e parti accompagnate dalla musica e cantate (dette cantica). Cantica e deverbia hanno metriche diverse. I deverbia usano senari giambici, i cantica usano settenari trocaici.
Nella commedia di Plauto c’è sempre un prologo, cioè una parte della rappresentazione in cui un personaggio presenta la commedia e dice cosa è avvenuto (successo) prima dei fatti che succederanno nella commedia.
Durante la commedia sono ci sono molte invenzioni verbali, cioè invenzioni di nomi, di espressioni Questo aiutava a far apprezzare le commedie dal pubblico.

Molto importante era la festa dei Saturnali che si svolgeva il 17 dicembre. Questa festa era in qualche modo simile alle feste dionisiache greche perché in quel giorno tutto succedeva senza controllo, era come in un carnevale: ci si metteva uno strano cappello, si poteva mangiare e bere senza controllarsi, gli schiavi potevano mangiare con i padroni. Il mondo era come se fosse alla rovescia (al contrario).
Plauto nelle sue commedie riprende questo clima e così gli schiavi, le prostitute, i giovani innamorati (gli adulescentes) che di solito nella società romana non contavano molto, ora, nelle sue commedie, diventano i protagonisti.
Spesso nelle commedie di Plauto c’è uno scontro tra padri e figli ma non è uno scontro diretto perché tutti e due mandano avanti servi ed amici per risolvere la questione.
A volte i giovani innamorati devono scontrarsi con i lenoni. I lenoni sono persone che sfruttano le prostitute e non hanno diritti di piena cittadinanza, quindi truffarli, ingannarli era un merito.
Nella commedia ci sono quindi:
– esigenze del sesso (giovani innamorati)
– esigenze del ventre, della pancia (cioè i parassiti, gli avari)
– esigenze di chi fa cose illegali liberamente (il servo furbo)
E tutte queste esigenze si uniscono per creare una truffa che permette al giovane innamorato di avere i soldi necessari per conquistare la cortigiana di cui è innamorato.
Il regista della truffa, cioè chi la programma, è il servo furbo.
Lo schiavo è uno che non ha nulla e che quindi non può perdere nulla; ha sopportato molte torture e per questo è diventato insensibile ad ogni minaccia.
Il servo furbo diventa anche un poeta e nella commedia rappresenta, in qualche modo, Plauto stesso.
Dato che il servo improvvisa (cioè fa cose non previste) si può parlare anche di “farsa”, che era un genere di spettacolo. Plauto quindi inserisce la farsa nella commedia.
Tutto questo spettacolo molto forte poteva essere sopportato dai Romani perché la commedia era ambientata in Grecia, quindi i Romani pensavano che parlasse di qualcosa che era lontano.
L’importante è divertirsi, per questo si prendono in giro le regole, la politica e la religione e si esalta (cioè si dice che è una cosa buona) il sesso e l’avarizia.
A volte gli attori si rivolgevano direttamente al pubblico e così quello che era qualcosa di “greco” diventa qualcosa di romano.
I nomi dei personaggi sono nomi che non esistono ma che ci mostrano la caratteristica del personaggio.

Opere di Plauto, le trame:

Aphitruo (Anfitrione)

Il dio Giove è innamorato di una donna che si chiama Alcmena e si trasforma fisicamente in modo da essere uguale al marito che si chiamava Anfitrione. Anfitrione è lontano in guerra perché è il capo dell’esercito di Tebe.
Mercurio, per aiutare Giove, finge di essere Sosia, cioè il servo di Anfitrione.
Quando tornano il vero Anfitrione e il vero Sosia ci sono alcuni equivoci (cioè tutti dicono cose diverse e non si capiscono).
Alcmena partorisce due gemelli: uno interamente umano, Ificle, e l’altro semi-divino, cioè Ercole.
Alla fine Anfitrione capisce e dice che è stato un onore avere avuto Giove come rivale.

Aulularia (La commedia della pentola)
Un vecchio avaro, che si chiama Euclione, ha il terrore che qualcuno gli rubi la sua pentola piena d’oro che ha scoperto nel giardino di casa e che ha nascosto sottoterra. Euclione finge di essere povero.
La pentola viene rubata però viene presa per aiutare un ragazzo, Liconide, a sposare Fedra che è la figlia di Euclione, che in questo modo riprende la pentola piena d’oro.

Miles gloriosus (Il soldato fanfarone)
Un soldato fanfarone, cioè un soldato che è vanitoso anche se non ha fatto molto, che si chiama Pirgopolinice rapisce la cortigiana Filocomasio che amava un bravo giovane, Pleusicle. Il servo di questo giovane organizza un piano per liberare la ragazza.

Pseudolus (Psudolo)
Il protagonista è Pseudolo, il servo molto intelligente del giovane innamorato che si chiama Calidoro. Pseudolo organizza dei piani per prendere al lenone Ballione, che è avaro e senza onore, la ragazza che Calidoro ama, la cortigiana Fenicio. Il servo riesce a togliere molti soldi a Ballione e con questi ripaga anche il padre di Fenicio: l’unico che ci rimette è il ruffiano Ballione.

Truculentus (Truculento o Zoticone, Rozzo)
La protagonista di questa commedia è una donna, Fronesio (Sagaciona), una cortigiana che con l’aiuto della sua serva riesce a sfruttare allo stesso tempo tre amanti: il cittadino ateniese Diniarco (Capotremendo), il ricco campagnolo Strabace (Guercio) e il soldato babilonese Stratofane (Soldatillustre), che è un fanfarone.
La commedia prende il titolo dal nome del servo di Strabace (Guercio), che si chiama appunto Truculento, che diceva di essere nemico di tutte le donne e voleva salvare il suo giovane padrone dalla cortigiana che era senza pietà. Truculento arriva a litigare con la serva di Fronesio (Sagaciona) che si chiama Astafio (Uvapassa). Ma anche lui alla fine deve cedere.
Tra i trucchi che usa Fronesio (Sagaciona) c’è quello di fingere di aver partorito un bambino da uno dei tre amanti, il soldato babilonese; in realtà è solo un modo per prendergli i soldi.

Gneo Nevio

Nasce in Campania intorno al 270 a. C., vive a Roma come cittadino romano sine suffragio (cioè senza possibilità di votare). Partecipa alla prima guerra punica.
Odiava la nobiltà e specialmente la famiglia dei Metalli. Nelle sue opere attacca i potenti e ne paga le conseguenze. Infatti i Metalli prenderanno il potere a Roma e lui sarà cacciato.
Nevio scrive tragedie cothurnatae e paretextae, commedie palliatae e forse anche di commedie togatae.
Ebbe fortuna e fu celebre soprattutto come comico.
L’opera più importante che scrive è soprattutto il Bellum Poenicum che è il primo poema epico romano.

Bellum Poenicum

E’ un poema epico che non è diviso in libri è infatti un carmen continuum.
Se Livio Andronico aveva introdotto a Roma l’epica greca, Gneo Nevio dà origine al primo poema epico romano, trattando argomenti storici e mitologici .
Gli eventi di cui parla sono eventi contemporanei. Canta il successo dei Romani nella prima guerra punica, esalta (parla bene di) le virtù e il valore dei Romani.
In una parte del poema parla delle origini di Roma e racconta l’arrivo di Enea nel Lazio e l’episodio (il fatto) con Didone da cui ha origine il conflitto (guerra) tra Roma e Cartagine.
Nevio sembra quasi mescolare i due esempi greci dell’Odissea e dell’Iliade. Imita l’Odissea quando parla di Enea, e imita l’Iliade quando parla dello scontro tra Roma e Cartagine.
Usa il saturnio come metrica e uno stile molto elevato.
Dato che, come abbiamo visto, il latino non aveva molti vocaboli, Nevio fa delle copie dalla lingua greca.
Anche in questo poema, ovviamente, c’è l’invocazione alle muse.
In quest’opera la storia diventa un argomento molto importante ed entra a far parte della letteratura.

Livio Andronico

Andronico è un greco di Taranto arrivato a Roma come schiavo seguendo Livio Salinatore.
Si occupa dell’istruzione dei figli dell’uomo e in seguito viene liberato prendendo il nome del suo padrone. Da questo momento diventa un insegnante di greco e latino.
Con Livio Andronico inizia la letteratura romana.
Scrisse diverse tragedie di argomento greco, soprattutto del ciclo troiano (cioè che si occupavano degli eroi della guerra di Troia) ispirandosi a Euripide e Sofocle (due scrittori greci).

Traduce l’Odissea. Perché traduce l’Odissea e non l’Iliade? L’Iliade sembrerebbe l’opera più giusta perché parla di una guerra e i Romani sono un popolo guerriero. Però l’Iliade parla di una guerra tra i Greci e Troia e sono i Greci a vincere. I Romani credevano di provenire da Enea, che era un troiano.
L’Odissea invece parla di Ulisse un eroe greco che però rappresentava il perfetto pater familias e Peneole poteva essere una matrona romana. I valori dell’Odissea sono gli stessi valori dei Romani: l’importanza della famiglia, della fedeltà, della patria e della pietas (rispetto religioso)
La traduzione che fa Livio è una traduzione adattata (sistemata) e non meccanica.

Al posto dell’invocazione alla Musa (divinità greca che dava l’ispirazione per scrivere) Livio mette l’invocazione alla Camena (una divinità romana).

Mentre la metrica dell’Odissea era l’esametro, Livio per l’Odusìa usa il saturnio che era una metrica romana.

Il latino antico era una lingua con poche parole rispetto al greco, per questo Livio nel tradurre l’opera fa anche un adattamento della lingua.

Trama (storia) – Ulisse aveva aiutato i Greci a vincere la guerra di Troia con l’idea di costruire un cavallo di legno che contenessi i soldati. Ulisse usa l’intelligenza e in qualche modo inganna i Troiani che pensavano che quel cavallo fosse un dono in nome della pace.
Finita la guerra gli dèì decidono cosa fare di Ulisse perché ancora non era tornato nella sua casa ad Itaca. Ulisse è protetto da Minerva (la dea della sapienza) ma contro di lui c’è Poseidone, il dio del mare che lo fa naufragare.
Dopo il naufragio, raggiunge a nuoto l’isola dei Feaci dove viene trovato da Nausicaa, la figlia del re dell’isola. Ulisse comincia a raccontare quello che gli è successo.
Infatti gran parte dell’Odissea è raccontata da Ulisse in persona.
Ulisse dice di aver incontrato Polifemo, di esser stato imprigionato e di averlo accecato (Ulisse usa l’intelligenza per uscire dalla grotta mettendosi sotto una pecora e dice di chiamarsi Nessuno per non essere perseguitato).
Poi dice di aver incontrato la maga Circe che trasforma gli uomini in maiali facendo mangiare loro del cibo magico. Ulisse mangia un’erba data dal dio Ermes e così non si trasforma. Viene liberato e la maga Circe gli dice di andare da un profeta (un uomo saggio che legge il futuro) che si trova all’Inferno per farsi dare dei consigli.
Subito dopo Ulisse incontra le sirene, delle creature che erano per metà donna e per metà pesce. Queste hanno una bellissima voce ma cantando facevano cadere i marinai in mare per affogarli. Ulisse vuole ascoltare il canto e per non morire si fa legare all’albero della nave.
Poi incontra due mostri del mare Scilla e Cariddi da cui riesce a sopravvivere.
Finito di raccontare Ulisse viene portato dai Feaci ad Itaca. Qui Minerva lo traveste da mendicante per non farlo riconoscere.
A casa di Ulisse c’era un banchetto con i Proci, il capo di questi vuole sposare Penelope. Penelope per non sposarlo chiede di poter terminare un mantello per il suocero. Però di giorno tesseva e di notte disfaceva quello che aveva fatto, così il mantello non era mai terminato.
Al banchetto Penelope propone di tirare con l’arco di Ulisse. Un arco molto duro che solo Ulisse riesce a tendere. Il mendicate Ulisse ci riesce, e insieme al figlio Telemaco uccide i Proci.
Poi per essere riconosciuto dalla moglie le racconta come è costruito il loro letto.
Il viaggio di Ulisse dura dieci anni, così come era durata la guerra di Troia. Infatti dieci anni indicavano un tempo lunghissimo. L’Odissea è quindi la storia di un lungo viaggio.
E’ importante notare che Ulisse usa sempre l’intelligenza, l’ingegno. E’ per questo che all’inizio Omero, e poi Livio Andronico, chiedono alla Musa (o alla Camena) che racconti loro l’uomo dal “multiforme ingegno” (multiforme vuol dire con molte forme, con diversi tipi di intelligenza).

Che cos’è l’Epica? E’ un’opera che racconta le gesta (azioni), storiche o leggendarie di un eroe o di un popolo. Il poema epico è un racconto in versi del mito. Con l’epica si conserva e si trasmette la memoria di una civiltà, di un popolo.

Teatro latino

Quando il teatro nasce in Grecia, non nasce come uno spettacolo ma come un fenomeno religioso.
Nasce dalle feste dionisiache dove una folla di uomini si travestiva, cantava e invocava il dio Dioniso (Dioniso, detto Bacco dai Romani, è il dio del vino e di ciò che è istintivo non controllato).
Il teatro diventa poi un rito religioso perché venivano trattate storie prese dai miti e dalla storia sacra e gli spettacoli avevano luogo durante le feste religiose.
Gran parte dei Greci assistevano alle rappresentazioni. In questo modo il teatro era anche uno strumento per l’educazione della polis, la città-stato della Grecia.
Con il tempo, però, è diventato sempre più uno spettacolo di intrattenimento e quello che importava non era più cosa si insegnava nella rappresentazione ma quanto la rappresentazione valeva dal punto di vista artistico.

Per i Romani il teatro è soprattutto uno strumento per il divertimento e lo svago e quindi per molto tempo viene considerato inutile e immorale, cioè contrario ai valori della società romana.
E’ per questo motivo che i primi teatri vengono costruiti solo dopo il I secolo a. C.

Struttura del teatro

Il teatro in Grecia è formato da una parte semicircolare, ricavata (presa, creata) da una collina, dove c’erano le gradinate in cui assisteva il pubblico.
La scena (palcoscenico) che all’inizio serviva solo agli attori per cambiarsi l’abito, viene poi abbellita e utilizzata come sfondo.
Importante poi era l’orchestra che era uno spazio circolare tra la cavea e il palcoscenico, qui si trovava il coro.

Il teatro a Roma non è scavato in una collina ma la cavea poggia su delle volte a botte. In questo modo questo edificio può essere costruito anche in città.
Essendo rialzato con gli archi è possibile anche decorare la facciata e i Romani lo faranno utilizzando anche le semicolonne.
L’orchestra, nel teatro romano,  non è importante come nel teatro greco, infatti per i romani conta di più la scenografia, la parte dietro il palcoscenico.
Con i Romani viene utilizzato anche il sipario, che era un tessuto, come una enorme tenda, che serviva a chiudere la scena alla fine dell’opera o di una parte di questa.

Acustica e maschere

La struttura del teatro doveva permettere (dare la possibilità) agli spettatori di sentire bene quello che succedeva sul palco. Per questo si studiava in maniera precisa l’acustica (la materia che si occupa dei suoni) e per amplificare (aumentare) la voce si usavano le maschere.
Le maschere, inoltre, servivano anche per mostrare chiaramente, anche agli spettatori lontani, i personaggi. Infatti ogni maschera indicava un personaggio.
Si vede bene che i personaggi dovevano essere riconoscibili e questo era possibile perché molti personaggi erano fissi, cioè erano sempre gli stessi. Le maschere, quindi, erano anche molto semplici.
E’ noto (si sa) che gli attori erano solo uomini, poiché le donne non potevano recitare.

Rappresentazioni

Ci sono due tipi di rappresentazione: la tragedia e la commedia.

La tragedia è una rappresentazione che si caratterizza (diventa particolare) per il tono e lo stile elevati e per il finale drammatico (cioè finisce male).
Ci sono varie parti: il prologo, dove si dice cosa è successo prima, poi tra un episodio (parte del racconto) e l’altro c’è il coro che canta e che dà la possibilità di tenere insieme il racconto e, alla fine, c’è l’ultimo episodio che viene detto esodo.
La tragedia ha avuto meno fortuna della commedia a Roma.
Ci sono due tipi di tragedia:
Cothurnata = (dal nome dei calzari greci, un tipo di scarpa che indossavano gli attori) tragedia di argomento greco, il soggetto era spesso mitologico (legato al mito);
Pratexta = (dalla toga rossa, un abito, indossato dagli attori) tragedia di argomento romano, il soggetto era mitologico romano oppure apparteneva alla storia nazionale romana

La commedia è una rappresentazione dove lo stile non è elevato, l’ambiente è popolare, medio o borghese, quindi non è nobile; e c’è una deformazione (esagerazione, modificazione) della realtà.
A Roma ha avuto molto successo. Ci sono due tipi di commedia:
Fabula palliata = (dal mantello greco indossato dagli attori) imitava la commedia greca, i personaggi erano greci ma c’erano riferimenti a usi e istituzioni romane
Fabula togata = (dalla toga indossata dagli attori) l’argomento era romano e nazionale, in questa l’influenza greca era molto debole.

I Romani usavano la scrittura soprattutto per cose pratiche: per scrivere le leggi, per compilare (scrivere) gli annali (documenti che scrivevano i fatti successi i quell’anno), per scrivere delle note sugli oggetti che si usavano o per le iscrizioni funerarie.
La letteratura nasce solo con Livio Andronico, Nevio ed Ennio che erano tutti e tre meridionali e di bassa o media estrazione sociale (cioè non erano nobili o ricchi).
Sono già passati circa cinquecento anni dalla fondazione di Roma.