Due prove del cammino sprituale

Il grande maestro della tradizione sufi, Nasrudin, fu invitato ad una conferenza.
Nasrudin fissò la conferenza per le due del pomeriggio, e fu un enorme successo: i mille posti furono subito esauriti, e più di seicento persone dovettero rimanere fuori, a seguire i lavori attraverso un sistema televisivo a circuito chiuso. Alle due in punto, entrò un assistente di Nasrudin dicendo che, per motivi di forza maggiore, la conferenza sarebbe iniziata in ritardo. Alcuni si alzarono indigniati, chiesero la restituzione del denaro pagato per il biglietto e se ne andarono.Rimase comunque moltissima gente, sia dentro la sala sia fuori. Alle quattro, il maestro sufi non si era ancora presentato: a poco a poco, le persone cominciarono a lasciare la sala; tutti riebbero i propri soldi. In fin dei conti, l’orario di lavoro stava finendo ed era giunto il momento di tornare a casa. Alle sei, i milleseicento spettatori originari erano ridotti a meno di un centinaio. Fu allora che entrò Nasrudin. Sembrava completamente ubriaco, e rivolse alcune battute pesanti a una giovane seduta in prima fila. Passata la sorpresa, le persone si indignarono: com’era possibile che, dopo un’attesa di quattro ore, quell’uomo si comportasse in quel modo? Si levarono mormorii di disapprovazione, ma il maestro sufi non vi diede alcuna importanza: urlando, continuò a rivolgersi alla ragazza, dicendole che era sexy; poi la invitò a partire con lui per la Francia. Dopo aver insultato alcune persone che reclamavano, Nasrudin tentò di alzarsi, ma cadde rovinosamente. Indignati, gli astanti decisero di andarsene, dicendo che gli organizzatori erano dei ciarlatani e che avrebbero denunciato quello spettacolo degradante a tutti i giornali. Nella sala rimasero nove persone. A quel punto, appena il gruppo se ne fu andato, Nasrudin si alzò: era sobrio, i suoi occhi irradiavano una luce soave e dalla sua figura promanava un’aura di rispettabilità e saggezza “Voi siete coloro che dovranno udirmi,” disse “Avete superato le due prove più dure del cammino spirituale: la pazienza di aspettare il momento giusto e il coraggio di non provare delusione di fronte a ciò che avete visto. A voi insegnerò…”.

I tre ostacoli

Un giorno un Maestro accolse tre candidati che volevano diventare suoi discepoli. Al primo incontro il Maestro iniziò a comportarsi in modo eccentrico a tavola, facendo discorsi assurdi e avendo atteggiamenti strani.
Disse anche talune parolacce e mangiò il suo cibo con le mani, asciugandosi la bocca al polsino della camicia. Uno di questi tre discepoli se ne andò, scandalizzato di questo atteggiamento.
Il secondo fa avvisato dai discepoli anziani (istruiti così dal Maestro) che questi era un truffatore, che si stavano organizzando per fargliela pagare e che lui doveva stare ben attento a fidarsi di un uomo così. Anche il secondo uscì dal gruppo.
Al terzo il Maestro proibì categoricamente di prendere la parola ogni volta che la chiedeva e di porre qualsiasi tipo di domande.
Anche il terzo se ne andò, sdegnato ed offeso.
Quando il Maestro fu solo con i suoi allievi disse: “Il comportamento di coloro che se ne sono andati illustra tre validi concetti. Il primo “non giudicare a prima vista”. Il secondo “non giudicare cose di grande importanza da ciò che dicono gli altri”. Il terzo “non fare della tua percezione di stima ed apprezzamento altrui il metro per il tuo giudizio su di loro.”

La volpe con la pancia piena

Una volpe affamata, vedendo nel cavo di una quercia del pane e della carne lasciatevi da qualche pastore, vi entrò e lì mangiò. Ma quando ebbe la pancia piena, non riuscì più a venir fuori, e prese a sospirare e a gemere. Un’altra volpe che passava a caso di là udì i suoi lamenti e le si avvicinò, chiedendogliene il motivo. Quando seppe l’accaduto: “e tu resta lì,” le disse, “finchè non sarai ritornata com’eri quando c’entrasti: così ne uscirai facilmente”.
Questa favola mostra che il tempo risolve le difficoltà.

Il pifferaio magico

La città di Hamelin si trova nella regione del Brunswick, in Germania, dove il fiume Weser, largo e profondo, bagna le sue mura dal lato sud. Un posto piacevole, ma non quando questa storia ebbe inizio, poiché i suoi abitanti pativano tutti per causa di un flagello: i ratti! i quali attaccavano i cani, uccidevano i gatti, mordevano i bambini nelle culle, spaventavano le donne, mangiavano il formaggio nei calderoni, leccavano la minestra nei mestoli dei cuochi, aprivano i barili delle acciughe salate, fino a fare i nidi dentro i cappelli degli uomini, gridando e squittendo in tanti modi differenti.
Finalmente la gente, come un sol uomo, si diresse verso il municipio:
– E’ chiaro, – essi dicevano, – il sindaco è uno sciocco e pure la giunta se pensano che noi compriamo abiti foderati di ermellino per chi non sà decidere come fare a sbarazzarsi di questo flagello.
La giunta era a consiglio da ore senza aver trovato soluzione quando il sindaco ruppe il silenzio:
– Venderei il mio vestito di ermellino anche per un fiorino, se si potesse trovare una trappola adatta.
– Il popolo protesta! – dissero alcuni della giunta.
– Certo – riprese il sindaco – ma e’ facile dire a uno di spremersi il cervello. Ah! la mia povera testa, me la sono grattata per niente! Vorrei essere lontano di qui un miglio!
Nella piazza i cittadini erano fitti e si accalcavano davanti al portone del municipio:
– Quando troverete il mezzo per sbarazzarsi di questo flagello? Voi sperate di vivere in pace e sicuri, avvolti nei vostri manti; su, signori! usate i cervelli e trovate il rimedio di cui abbiamo bisogno o, quant’? vero Iddio, vi mandiamo via! – Nel sentire questo il sindaco e la giunta tremarono di paura.
Ma ecco arrivare in paese uno strano personaggio dal lungo mantello, metà giallo e metà rosso. Alto e magro, il tipo portava in testa una cappa che con il bavero alzato metteva in ombra il viso. Curiosi, i bambini gli si fecero attorno mentre lui saliva per le vie. Anche il piccolo zoppetto seguiva, ma riusciva a malapena a stare nella fila. Nella piazza la folla silenziosa fece largo e il tipo arrivò al portone.
Il sindaco e la giunta, ancora alla ricerca di una trappola, udirono alla porta un bussare discreto.
– Avanti! – urlò il sindaco ed ecco entrare lo strano personaggio. – Dio ci benedica – disse il sindaco – cche cos’è questo? –
Levata la cappa e aperto il mantello, l’uomo mostrò lunghi capelli scuri e leggeri, un viso liscio e lungo, allargato in un lieve sorriso e si avvicinò alla tavola del consiglio.
– Eccellenze – disse il tipo facendo un ampio inchino – io sono capace di risolvere il problema che assilla i vostri cervelli, io posso liberare la città dai topi. –
Il sindaco e la giunta ascoltarono con interesse.
– E in qual modo riuscirete nell’intento, – chiese il sindaco.
– Con la musica del mio piffero – disse l’uomo, scoprendo lo strumento al collo, fra molti sorrisi.
– E quanto volete per il lavoro? – chiese il sindaco.
– Mille fiorini. –
– Solo mille!? cinquantamila dico io! – e tutti si misero a ridere.
– E sia – disse il sindaco, – prova col tuo piffero. –
Il Pifferaio scese in strada, increspò le labbra e alle prime note si udì il mormorio tipico di un esercito; ed il mormorio divenne brontolio, ed il brontolio un possente rombo, e come zampilli di fontane i topi uscirono dalle case. Topi grossi, topolini, topi neri, grigi e fulvi seguivano il Pifferaio, danzando, fino a che giunsero al fiume Weser, dentro al quale si tuffarono e perirono.
Ad Hamelin le campane suonarono fino a far vacillare il campanile.
– Andate! – gridava il sindaco – Frugate i nidi, chiudete i fori, non lasciate nella nostra città nessuna traccia dei topi! – quando nella piazza apparve la faccia del pifferaio.
– Per favore i miei mille fiorini – disse.
– Mille fiorini?! – fece il sindaco livido. – Pagare questa somma ad un vagabondo con un mantello da zingaro? Per quanto ci riguarda tutto è finito nel fiume – disse il sindaco ammiccando alla giunta – e ciò che è morto non più tornare in vita. Al nostro dovere, comunque, non mancheremo. Mille fiorini fu detto per burla; prendine cinquanta e ti andranno bene. –
Gli occhi del Pifferaio si fecero piccoli come spilli.
– Non ammetto scherzi – rispose – voglio la somma pattuita o sentirete suonare il mio piffero con diverso tenore. –
– Brutto spavaldo, razza di un suonator pezzente – rispose addirato il sindaco – speri con quel tono e quello sguardo da insolente di intimidirmi?! Cinquanta li rifiuti, non avrai nulla: suona fin che scoppi! –
Il Pifferaio non disse parola, andò per le vie, ed emise appena tre note. Si udì un correre di piedini, scarpe di legno risuonare sui ciottoli, battere di mani e vociare di piccoli. Tra calpestii e risa correvano bambini e ragazzetti con le guance rosa, i riccioli biondi, gli occhi vispi e i denti come perle tra labbra rosso rubino, tutti dietro al Pifferaio di Hamelino.
Il sindaco ammutolì e pure la giunta, vedendo i fanciulli passare saltellando; inutili i richiami e le grida dei genitori, che potevano soltanto seguire con lo sguardo il Pifferaio e i bambini danzare in fila alle sue spalle verso il fiume. Ma non andarono nell’acqua; si diressero invece verso le montagne, e raggiunto il fianco di una rupe entrarono per una porta, improvvisamente aperta, che si richiuse subito dopo loro.
Il sindaco mandò inviati in ogni parte del mondo a offrire al Pifferaio argento ed oro a suo piacimento, se solo fosse tornato e avesse riportato i bambini. Ma quando capirono che l’impresa era inutile, tutto il paese cadde per sempre in un profondo sconforto.
Uno però si salvò, il piccolo zoppetto che, ultimo e claudicante, non aveva fatto in tempo ad entrare: ancora dopo molti anni è triste nel ricordare che il Pifferaio aveva anche a lui promesso un paese paradisiaco, vicino alla città, le cure al suo piede e tanta felicità, e ora, ormai vecchio, siede spesso a pensare nel luogo dell’ultimo passaggio.

La Madre Speciale

Vi è mai capitato di pensare come vengano scelte le madri dei figli handicappati?
In qualche maniera riesco a raffigurarmi Dio che da istruzioni agli angeli, che prendono nota in un registro gigantesco!
A questa li diamo un maschio..santo patrono..Matteo!
A lei, una bambina, santa patrona, Cecilia!
E cosi la lunga lista scorre, finche appare un nome..e Dio dice al suo angelo, a questa li diamo un figlio handicapatto.
L’angelo è curioso e chiede “ Perché a questa qui, Dio, è cosi felice!”
“Esattamente, risponde Dio sorridendo, “ Potrei mai dare un figlio handicappato a una donna che non conosce l’allegria? Sarebbe una cosa crudele”
“Ma ha pazienza?” chiede l’angelo.
“Non voglio che abbia molta pazienza, altrimenti sprofonderà in un mare di autocommiserazione e pena. Una volta superato lo shock e il risentimento, di sicuro c’è la farà!”
“ Ma signore, penso che quella donna non creda nemmeno a Te”
Dio sorride,”Non importa.Posso provvedere.Quella donna è perfetta.E dotata del giusto egoismo”
L’angelo resta senza fiato.”Egoismo? è una virtù?”
Dio annuisce, “Se non sarà capace di separarsi ogni tanto dal figlio, non sopravvivrà mai. Si, ecco la donna cui darò la benedizione di un figlio meno perfetto.Ancora non se ne rende conto ma sarà da invidiare.
Non darà mai per certa una parola. Non considererà mai che un passo sia un fatto comune. Quando il bambino dirà “mamma” per la prima volta, lei sarà testimone di un miracolo e ne sarà consapevole. Quando descriverà un albero o un tramonto al suo bambino cieco, lo vedrà come poche persone sano vedere la mia creazione.
Le consentirò di vedere chiaramente le cose come le vedo io- ignoranza- crudeltà- pregiudizio-, e le concederò di levarsi al di sopra di esse. Non sarà mai sola.
Io sarò al suo fianco ogni minuto di ogni giorno della sua vita, poichè starà facendo il mio lavoro infallibilmente come se fosse al mio fianco”.
E per il suo santo patrono?” chiede l’angelo, tenendo la penna sollevata a mezz’aria.
Dio sorride, “ Basterà uno specchio”

Quale dei due vincerà?

Un anziano Apache stava insegnando la vita ai suoi nipotini.
Egli disse loro: “Dentro di me infuria una lotta, è una lotta terribile fra due lupi.
Un lupo rappresenta la paura, la rabbia, l’invidia, il dolore, il rimorso, l’avidità, l’arroganza, l’autocommiserazione, il senso di colpa, il rancore, il senso d’inferiorità, il mentire, la vanagloria, la rivalità, il senso di superiorità e l’egoismo.
L’altro lupo rappresenta la gioia, la pace, l’amore, la speranza, il condividere, la serenità, l’umiltà, la gentilezza, l’amicizia, la compassione, la generosità, la sincerità e la fiducia.
La stessa lotta si sta svolgendo dentro di voi e anche dentro ogni altra persona.”
I nipoti rifletterono su queste parole per un po’ e poi uno di essi chiese:
“Quale dei due vincerà?”
L’anziano rispose semplicemente:
“Quello che nutri.

L’uccello a due teste

C’era una volta un uccello con due teste e un corpo: la testa di destra era vorace e abilissima nella ricerca del cibo, mentre quella di sinistra, altrettanto ghiotta, era maldestra.
La testa di destra riusciva sempre a nutrirsi a sazietà, mentre quella di sinistra era incessantemente tormentata dalla fame.
E così un giorno la testa sinistra disse alla destra: “Conosco, qui vicino, un’erba squisita di cui ti delizieresti: vieni, ti conduco dove cresce “.

In realtà sapeva che quel’erba era velenosa, ma voleva con questo stratagemma uccidere l’altra testa, per poter poi mangiare a piacimento.
E la testa di destra mangiò l’erba, e il veleno uccise l’uccello dalle due teste.

Il lupo e il cane

Un lupo tutto striminzito dalla fame incontra un cane ben pasciuto.
Si salutano e si fermano.
“Donde vieni così lucido e bello? E che hai mangiato per farti così grasso? Io che sono tanto più forte di te, muoio di fame.”
E il cane:
“Se vuoi ce n’è anche per te. Basta che tu presti lo stesso mio servizio al padrone”.
“E che servizio?”
“Custodirgli la porta di casa e tener lontani i ladri, la notte.”
“Uh! Ma io sono prontissimo! Adesso sopporto nevi e piogge del bosco, trascinando una vita maledetta. Mi dev’essere molto più facile vivere sotto un tetto e riempirmi lo stomaco in pace.”
“Allora vieni con me.”
E vanno. Lungo la via il lupo vede una spelatura al collo del cane.
“Che roba è quella, amico mio?”
“Oh… è niente”
“Ma, se vuoi dirmelo…”
“Qualche volta, per la mia natura impetuosa, mi tengono legato perché stia quieto durante il giorno e vigili la notte. Ma al crepuscolo vado in giro dove mi piace; mi si porta il pane senza ch’io debba richiederlo, il padrone mi dà ossi della sua tavola, la servitù mi getta qualche boccone: gli avanzi di ognuno sono miei.
Così, senza fatica, mi empio la pancia.”
“Ma se si ha voglia di uscire, è permesso?”
“Proprio interamente, no.”
“Addio, caro: goditi pure le tue gioie: io non baratto la mia libertà per un regno.”

Il bamino e le stelle

Una tempesta terribile si abbattè sul mare.
Lame affilate di vento gelido trafiggevano l’acqua e la sollevavano in ondate gigantesche che si abbattevano sulla spiaggia come colpi di maglio, o come vomeri d’acciaio. Aravano il fondo marino scaraventando le piccole bestiole del fondo, i crostacei e i piccoli molluschi, a decine di metri dal bordo del mare.
Quando la tempesta passò, rapida come era arrivata, l’acqua si placò e si ritirò. Ora la spiaggia era una distesa di fango in cui si contorcevano nell’agonia migliaia e migliaia di stelle marine. Erano tante che la spiaggia sembrava colorata di rosa.
Il fenomeno richiamò molta gente da tutte le parti della costa. Arrivarono anche troupe televisive per filmare lo strano fenomeno. Le stelle marine erano quasi immobili. Stavano morendo.
Tra la gente, tenuto per mano dal papà, c’era anche un bambino che fissava con gli occhi pieni di tristezza le piccole stelle di mare. Tutti stavano a guardare e nessuno faceva niente.
All’improvviso il bambino lasciò la mano del papà, si tolse le scarpe e le calze e corse sulla spiaggia. Si chinò, raccolse con le piccole mani tre piccole stelle del mare e, sempre correndo, le portò nell’acqua. Poi tornò indietro e ripetè l’operazione.
Dalla balaustra di cemento, un uomo lo chiamò: “Ma che fai ragazzino?”
“Ributto in mare le stelle marine. Altrimenti muoiono tutte sulla spiaggia” – rispose il bambino senza smettere di correre.
“Ma ci sono migliaia di stelle marine su questa spiaggia: non puoi certo salvarle tutte. Sono troppe!” – gridò l’uomo. “E questo succede su centinaia di altre spiagge lungo la costa! Non puoi cambiare le cose!”
Il bambino sorrise, si chinò a raccogliere un’altra stella di mare e gettandola in acqua rispose: “Ho cambiato le cose per questa qui”.
L’uomo rimase un attimo in silenzio, poi si chinò, si tolse scarpe e calze e scese in spiaggia. Cominciò a raccogliere stelle marine e a buttarle in acqua. Un istante dopo scesero due ragazze ed erano in quattro a buttare stelle marine nell’acqua. Qualche minuto dopo erano in cinquanta, poi cento, duecento, migliaia di persone che buttavano stelle di mare nell’acqua.

“Per cambiare il mondo basterebbe che qualcuno, anche piccolo, avesse il coraggio di incominciare.”

L’occhio del falegname

C’era una volta, tanto tempo fa, in un piccolo villaggio, la bottega di un falegname. Un giorno, durante l’assenza del padrone, tutti i suoi arnesi da lavoro tennero un gran consiglio.

La seduta fu lunga e animata, tavolta anche veemente, Si trattava di escludere dalla onorata comunità degli utensili un certo numero di membri.

Uno prese la parola : ” Dobbiamo espellere nostra sorella Sega, perchè morde e fa scricchiolare i denti. Ha il carattere più mordace della terra”
Un altro interviene : ” Non possiamo tenere fra noi nostra sorella pialla : Ha un carattere tagliente e pignolo, da spellacchiare tutto quello che tocca”
” Fratel martello- protestò un altro- ha un caratteraccio pesante e violento. lo definirei un picchiatore. E urtante il suo modo di ribattere continuamente e da sui nervi a tutti. Escludiamolo?”

“E i chiodi? Si può vivere con gente cosi pungente? Che se ne vadano! E anche lima e raspa. A vivere con loro è un attrito continuo. E cacciamo anche cartavetro, la cui unica ragion d’essere sembra quella di graffiare il prossimo!”

Cosi discutevano animosamente, parlavano tutti inssieme, dove tutti volevano espellere tutti!

La reunione fu bruscamente interrotta dall’arrivo del falegname. Tutti gli utensilli tacquero quando lo videro avvicinarsi al tavolo del lavoro.

L’uomo prese un asse e lo sego con la sega mordace, lo piallo con la pialla che spela tutto ciò che tocca, sorella ascia, sorella raspa e sorella cartavetro, entrarono in azione subito dopo.

Il falegname presse poi i chiodi e il martello.
Si servi di tutti i suoi attrezzi di brutto carattere per fabricare una culla.
Una bellissima culla per accogliere un bambino che stava per nascere.

L’amore cieco

Si racconta che un giorno si riunirono in un luogo della terra tutti i sentimenti e le qualità degli uomini. Quando la noia si fu presentata per la terza volta, la follia, come sempre un po’ folle, propose: “Giochiamo a nascondino!”.
L’interesse alzò un sopracciglio e la curiosità, senza potersi contenere, chiese: “A nascondino? Di che si tratta?”
“É un gioco, – spiegò la follia – in cui io mi copro gli occhi e mi metto a contare fino a 100 mentre voi vi nascondete e, quando avrò terminato di contare, il primo di voi che scopro prenderà il mio posto per continuare il gioco.”
L’entusiasmo si mise a ballare, accompagnato dall’euforia. L’allegria fece tanti salti che finì per convincere il dubbio e persino l’apatia alla quale non interessava mai niente…
Però non tutti vollero partecipare: la verità preferì non nascondersi (perché, se poi alla fine tutti la scoprono?), la superbia pensò che fosse un gioco molto sciocco (in fondo ciò che le dava fastidio era che non fosse stata una sua idea) e la codardia preferì non arrischiarsi.
“Uno, due, tre…” cominciò a contare la pazzia.
La prima a nascondersi fu la pigrizia , che si lasciò cadere dietro la prima pietra che trovò sul percorso, la fede volò in cielo e l’invidia si nascose all’ombra del trionfo, che, con le proprie forze, era riuscito a salire sulla cima dell’albero più alto.
La generosità quasi non riusciva a nascondersi: ogni posto che trovava le sembrava meraviglioso per qualcuno dei suoi amici. Che dire di un lago cristallino? Ideale per la bellezza. Le fronde di un albero? Perfetto per la timidezza. Le ali di una farfalla? Il migliore per la voluttà. Una folata di vento? Magnifico per la libertà. Così la generosità finì per nascondersi in un raggio di sole.
L’egoismo, al contrario, trovò subito un buon nascondiglio, ventilato, confortevole e tutto per sé, la menzogna si nascose sul fondale degli oceani (non è vero, si nascose dietro l’arcobaleno), la passione e il desiderio al centro dei vulcani. L’oblio… non mi ricordo… dove?
Quando la follia arrivò a contare 99 l’amore non aveva ancora trovato un posto dove nascondersi poiché li trovava tutti occupati, finché scorse un cespuglio di rose e alla fine decise di nascondersi tra i suoi fiori.
“Cento!” – contò la follia, e cominciò a cercare.
La prima a comparire fu la pigrizia, solo a tre passi da una pietra. Poi udì la fede, che stava discutendo con Dio su questioni di teologia, e sentì vibrare la passione e il desiderio dal fondo dei vulcani. Per caso trovò l’invidia, e poté dedurre dove fosse il trionfo. L’egoismo non riuscì a trovarlo: era fuggito dal suo nascondiglio, essendosi accorto che c’era un nido di vespe. Dopo tanto camminare, la follia ebbe sete, e nel raggiungere il lago scoprì la bellezza.
Con il dubbio le risultò ancora più facile, giacché lo trovò seduto su uno steccato senza avere ancora deciso da che lato nascondersi.
Alla fine trovò un po’ tutti: il talento nell’erba fresca, l’angoscia in una grotta buia, la menzogna dietro l’arcobaleno, infine l’oblio, che si era già dimenticato che stava giocando nascondino. Solo l’amore non le appariva da nessuna parte. La follia cercò dietro ogni albero, dietro ogni pietra, sulla cima delle montagne. Proprio quando stava per darsi per vinta scorse il cespuglio di rose e cominciò a muoverne i rami, quando, all’improvviso, si udì un grido di dolore: le spine avevano ferito gli occhi dell’amore…!
La follia non sapeva più che cosa fare per discolparsi: pianse, implorò, domandò perdono…arrivò fino a promettergli di seguirlo per sempre.
L’Amore accettò le scuse.

Da allora l’Amore è cieco e la Follia lo accompagna sempre.

Il congresso dei topi

Un gatto chiamato Rodilardo faceva tale strage di topi che non se ne vedevano quasi più intorno, tanto grande era il numero di quelli che aveva mandato alla sepoltura. I pochi rimasti., mancando loro il coraggio di lasciare i rifugi in cui si celavano, erano ridotti a non mangiare nemmeno il quarto di ciò che occorreva loro per sfamarsi e Rodilardo era considerato fra quella povera gente, non un gatto, ma un vero e proprio demonio.

Un giorno però, quel gatto si mise in viaggio per certe sue private faccende e, approfittando di questa lontananza, i topi superstiti si riunirono a congresso per discutere e trovare un rimedio al grande pericolo che li sovrastava. Dichiarata aperta la seduta, il decano, vecchio topo noto per la sua prudenza, espose che, a suo parere, si sarebbe dovuto trovare il modo di attaccare al più presto un sonaglio al collo di Rodilardo. Così, quando costui si sarebbe avviato alla solita caccia di roditori, i topi, preavvertiti dal suono avrebbero fatto in tempo a rifugiarsi nei loro buchi. Non sapeva suggerire altro ripiego migliore di questo e tutti i congressisti condivisero il saggio parere del signor decano.

La difficoltà consisteva nel fatto di riuscire ad appendergli il sonaglio al collo:
Uno disse: “Io non ci vado; fossi pazzo!”.
Un altro mormorò: “Non me ne sento capace”.
La seduta fu sciolta senza venire a capo di nulla.

Ne ho visti anch’io di simili congressi che si sono riuniti per non approdare ad un bel niente. Congressi non di topi, ma di scienziati, e persino capitoli di canonici. Non mancano i buoni consiglieri quando si deve discutere, ma se si tratta di eseguire le decisioni prese, allora tutti si ritraggono indietro con qualunque pretesto.

La farfalla e il lume

Un parpaglione variopinto e vagabondo andava, una sera, discorrendo nel buio, quando vide in lontananza un lumicino. Subito drizzò le ali in quella direzione, e quando giunse vicino alla fiamma si mise a ruo-tarle agilmente intorno guardandola con grande meraviglia. Com’era bella!
Non contento di ammirarla, il parpaglione si mise in testa di fare con lei quello che faceva di solito coi fiori odorosi: si allontanò, si voltò, e puntando coraggiosamente il volo verso la fiamma le passò sopra sfiorandola.
Si ritrovò, stordito, ai piedi del lume; e si accorse, con stupore, che gli mancava una zampa e che la punta delle ali era bruciacchiata.
– Che cosa mi sarà successo? – si chiese, senza riuscire a trovare una ragione. Non poteva assolutamente ammettere che da una cosa tanto bella, com’era quella fiamma, gli potesse venire alcun male; e perciò, dopo aver ripreso un po’ di forze, con un colpo d’ali si rimise in volo.
Fece alcuni volteggi, e di nuovo puntò verso la fiamma per posarvicisi sopra. E subito cadde, bruciato, nell’olio che alimentava la vivida fiammella.
– Maledetta luce – mormorò il parpaglione in fin di vita. – Io credevo di trovare in te la mia felicità, e invece ci ho trovato la morte. Piango sul mio sciocco desiderio, perché ho conosciuto troppo tardi, e a mie spese, la tua natura pericolosa. –
– Povero parpaglione – rispose il lume. – Io non sono il sole, come tu ingenuamente credevi. Io sono soltanto un lume; e chi non sa usarmi con prudenza, si brucia.

Il Natale di Martin

In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
– Non ho più desiderio di vivere – gli confessò. – Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati… Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi.
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All’improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c’era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: – Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L’indomani mattina Martin si alzò prima dell’alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. – Entra· disse – vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
– Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
– Non è niente – gli disse Martin. – Siediti e prendi un po’ di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all’ospite. Stepanic bevve d’un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po’. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
– Stai aspettando qualcuno? – gli chiese il visitatore.
– Ieri sera- rispose Martin – stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: “Guarda in strada domani, perché io verrò”.
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. – Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l’anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po’ di pane e della zuppa. – Mangia, mia cara, e riscaldati – le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: – Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. – Ecco – disse. – È un po’ liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. – Che il Signore ti benedica.
– Prendi – disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un’ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po’, vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all’altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. – Lascialo andare, nonnina – disse Martin. – Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. – Chiedi perdono alla nonnina – gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: – Te la pagherò io, nonnina.
– Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato – disse la vecchia.
– Oh, nonnina – fece Martin – se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
– Sarà anche vero – disse la vecchia – ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. – Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l’ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all’orecchio: – Martin, non mi riconosci?
– Chi sei? – chiese Martin.
– Sono io – disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
– Sono io – disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
– Sono io – ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.

Il custode dei maiali

C’era una volta un principe povero, che possedeva un reame piccolo piccolo, ma grande abbastanza per potercisi sposare: e infatti lui voleva proprio sposarsi. Certo, era una bella sfacciataggine da parte sua andare dalla figlia dell’imperatore e chiederle:
“Vuoi sposarmi?”, ma lui l’osò, perché il suo nome era pur sempre conosciuto nel mondo: c’erano centinaia di principesse che a una domanda così avrebbero risposto subito di sì: ma lei, invece, niente.
Ora, state un po’ a sentire quel che successe…
Sulla tomba del padre di questo principe cresceva un cespuglio di rose meraviglioso. Questo cespuglio fioriva ogni cinque anni, e faceva una rosa sola, un fiore tanto bello che odorandolo ci si dimenticava di tutti i dolori e le preoccupazioni; e sul cespuglio veniva un usignolo che nel suo piccolo becco sembrava contenere tutte le melodie del mondo. Quella rosa e quell’usignolo sarebbero stati il dono per la principessa: infatti il principe li chiuse in un astuccio e glieli mandò.
L’imperatore ordinò che gli mostrassero i doni, nel grande salone dove anche la principessa veniva a giocare con le sue dame di compagnia (era l’unica cosa che lei sapesse fare). Fu così che , quando vide gli astucci dei regali, batté le mani dalla gioia.
“Magari fosse un gattino”, disse lei: e invece saltò fuori una splendida rosa.
“Che meraviglia”, dissero tutte le dame.
“È veramente bella”, disse l’imperatore .
Ma quando la principessa la toccò con la mano, per poco non si mise a piangere.
“Che orrore , padre!”, disse; “non è finta, è vera!”
“È vera? Che orrore!” dissero le dame.
“Aspettiamo prima di arrabbiarci” disse l’imperatore; vediamo prima cosa c’è nell’altro astuccio. Saltò fuori l’usignolo: all’inizio cantava così bene che nessuno poteva lamentarsi.
Le dame si misero a fare apprezzamenti in francese, una meglio dell’altra: “Superbe! Charmant!”.
Ma poi un vecchio cavaliere osservò: “Mi ricorda molto il carillon della povera imperatrice. È la stessa melodia, lo stesso tono.”
“È vero!”, disse l’imperatore , e si mise a piangere come un bambino.
“Allora, forse non è un uccello vero”, disse la principessa.
“Ma certo che è un uccello vero”, dissero quelli che lo avevano portato lì.
“Allora se ne può anche volare via”, disse quella, e non permise assolutamente che il principe venisse a trovarla a corte.
Ma lui non si lasciò intimidire ; si spalmò sulla faccia una tinta marrone scura, si abbassò il berretto sulle orecchie e bussò alla porta.
“Buongiorno, imperatore”, disse. “Potrei per caso entrare a servizio nel vostro palazzo?”
“Eh, ma lo sa quanti ce ne sono, come lei, che cercano un lavoro!” disse l’imperatore. “Però, aspetta un po’, ho bisogno di qualcuno che stia di guardia ai miei maiali. Ne abbiamo così tanti!”
E il principe fu assunto come guardiano dei maiali dell’imperatore . Gli fu data una lurida stanzetta negli scantinati, vicino alla stalla, e dovette rimanere lì.
Per tutto il giorno rimase seduto a lavorare, e prima di sera aveva già fabbricato una marmitta; intorno all’orlo aveva messo dei campanellini che , non appena la zuppa bolliva, cominciavano a suonare alla perfezione una vecchia melodia:

“O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato…”

Ma la cosa migliore era che se uno infilava il dito nel fumo che saliva dalla marmitta, capiva subito dall’odore quali cibi stavano cuocendo sui fornelli di tutta la città: altro che belle rose!
Proprio in quel momento passò la principessa con tutte le dame; e quando sentì la melodia si fermò, molto contente, perché anche lei la conosceva.

“O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato…”

Anzi, era la sola canzone che conosceva, ma la sapeva suonare soltanto con un dito solo.
“Il nostro custode dei maiali dev’essere molto colto”, disse; “sa proprio la canzone che conosco io!”, disse. “Di grazia, andate a chiedergli quanto costa il suo strumento”.
E così una delle dame dovette mettersi gli zoccoli per andare a parlare con lui.
“Cosa volete per quella marmitta?”, gli chiese.
“Voglio dieci baci dalla principessa!”, disse il custode.
“Mamma mia!”, rispose la dama.
“Mi dispiace, ma non posso venderla per meno”.
Quando la dama fu tornata, la principessa le chiese: “E allora, cos’ha detto?”
“Non posso ripetervelo”, rispose la dama; “È troppo orribile”.
“Ditemelo almeno nell’orecchio”, rispose lei, e così la dama glielo disse nell’orecchio.
“Che razza d’insolente!”, disse la principessa, e se ne andò; ma aveva fatto ancora pochi passi che i campanelli ripresero d’incanto a tintinnare:

“O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato…”

“Di grazia”, disse, “andate a chiedergli se gli vanno bene dieci baci delle mie dame”.
“Proprio no, grazie”, fu la risposta del custode dei maiali. “Dieci baci della principessa: è la mia ultima parola”.
“Che disdetta!”, disse la principessa; “bisognerà che voi dame vi mettiate davanti a me, affinché non ci veda nessuno.
Le dame la circondarono da tutte le parti e allargarono le gonne: così il custode dei maiali ottenne dieci baci, e lei ebbe la pentola.
Che bel divertimento! Per tutta la notte e tutto il giorno misero a bollire la marmitta; così sapevano tutto quello che si stava cucinando in città, dalla casa del ciambellano a quella del ciabattino. Le dame ballavano e battevano le mani dalla contentezza.
“Noi sappiamo chi avrà la zuppa e chi avrà la focaccia! Sappiamo chi avrà la minestra e chi avrà le briciole! Questo sì che è interessante”.
“Certo che è interessante”, disse l’intendente della corte.
“Sì, ma mi raccomando, acqua in bocca! Io sono la figlia dell’imperatore!”
“Ma si figuri”, dicevano in coro tutte quante.
Il custode dei maiali – che in realtà era un principe, ma tutti lo prendevano per un vero custode di maiali – non lasciava passare un giorno senza inventarsi qualcosa. Un giorno costruì una raganella: quando uno la faceva girare saltavano fuori tutti i valzer, le polche e le mazurche che sono state composte sin dalla notte dei tempi.
“Questo sì che è davvero ‘superbe’”, disse la principessa quando passò di lì. “Non ho mai sentito canzoni così belle! Di grazia, andate a chiedergli quanto costa quello strumento; attenzione, però: io baci non glieli do!”
Una dama entrò a chiedere, e tornò dicendo che il custode dei maiali voleva cento baci.
“Ma quello lì è proprio matto, secondo me!”, disse la principessa; e stava per andarsene; ma dopo qualche passo tornò indietro: “Bisogna pur incoraggiare l’arte!”, pensò. “Dopotutto io sono la figlia dell’imperatore! Ditegli che gli darò dieci baci, come l’altro giorno, e gli altri glieli danno le dame!”
“Veramente a noi non piace”, dissero queste.
“Quante storie!”, rispose la principessa. “Se lo bacio io, perché non dovreste baciarlo anche voi? Dopotutto vi pago il vitto e l’alloggio!” E così la dama dovette tornare dal custode.
“Vuole soltanto cento baci dalla principessa”, disse, “Se no ognuno resta con quello che ha”.
“Fate da paravento”, sospirò la principessa: e una volta che tutte le dame si furono messe davanti, baciò il custode dei maiali.
“Che sarà mai tutta quella ressa davanti alla stalla dei maiali?”, si chiese l’imperatore , che si era affacciato al balcone. Si stropicciò gli occhi e poi inforcò gli occhiali.
“Ma sono le dame di compagnia! Chissà cosa stanno combinando! Bisogna che vada a vedere!”, e si tirò le pantofole sul calcagno – veramente un tempo erano state scarpe, ma lui le aveva tutte consumate.
Non appena fu sceso nel parco, prese a camminare piano piano, ma le dame non si accorsero di lui, perché erano troppo impegnate a sorvegliare il corretto svolgimento della faccenda: il porcaro non doveva ricevere troppi baci, ma nemmeno troppo pochi. Così a un certo punto lui si alzò sulle punte dei piedi.
“Ma cosa state combinando?”, disse, e quando vide che si stavano baciando, tirò loro una pantofola in testa, proprio mentre il guardiano dei maiali veniva baciato per l’ottantaseiesima volta.
“Via! Sparite!”, disse l’imperatore , infuriato, e così la principessa e il custode dei maiali furono banditi da tutto l’impero.
Lei si mise a piangere , mentre il custode dei maiali la sgridava, e pioveva a catinelle.
“Povera me!”, diceva la principessa. “Se mi fossi sposata quel bel principe! Come sono infelice”.
Il custode dei maiali andò dietro a un albero, si tolse la tinta nera dalla faccia, si tolse gli stracci e si rimise il suo vestito da principe, talmente bello che la principessa fece un profondo inchino davanti a lui.
“Cara mia!”, disse lui; “Lo sai? Ormai non ti voglio più bene, anzi! Non hai voluto un principe onorato, non sai nulla di rose e usignoli, ma per un sonaglio hai baciato un custode di maiali: ben ti sta!”
E se ne tornò nel suo regno, chiudendo la porta col catenaccio: e così a lei non rimase altro da fare che restare fuori a cantare:

“O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato…”