Dorme e sente nel suo sangue notturno
Transitare il tempo, le ere,
sfacimento e sfacimento
del mondo, creato ed increato,
sente un dolore insensato
per sé e non esistente,
ma ecco, d’improvviso
lei è, lei è fatta
grazia e croce
di un attimo,
di sé.
Per un attimo lei è,
oh gloria,
oh sgomento.
Lei è, figlia
di che sterminio
di tempi, casi,
eventi, genitrice
di quante infinità,
ha e non ha
il destro a domandarlo.
S’acquatta, è portata via, si perde
nella sua santa nullità –
lei dorme. Sa e non sa.
Categoria: Poesie
In tempo di Guerra
Sul muro appena intonacato,
Le libellule rosse guizzano
Come
Frecce insanguinate
Gazzella dell’amore disperato
La notte non vuole venire
perché tu non venga
e io non possa andare.
Ma io andrò
benché un sole di scorpioni mi mangi la testa.
Ma tu verrai
con la lingua bruciata dalla pioggia di sale.
Il giorno non vuole venire
perché tu non venga
e io non possa andare.
Ma io andrò
portando ai rospi il mio garofano morsicato.
Ma tu verrai
nelle cupe cloache dell’oscurità.
Né la notte né il giorno non vogliono venire
perché io muoia per te
e tu per me.
Se
Se riuscirai a non perdere la testa quando tutti
la perdono intorno a te, mettendoti sotto accusa;
se riuscirai ad aver fede in te quando tutti dubitano,
e a tener in conto anche il loro dubitare;
se riuscirai ad attendere senza stancarti nell’attesa,
o se, calunniato, non risponderai con calunnie,
o se, odiato, non ti lascerai andare all’odio,
senza però apparir troppo buono o parlando troppo da saggio;
se riuscirai a sognare senza fare dei tuoi sogni i tuoi padroni;
se riuscirai a pensare senza fare del pensiero il tuo fine,
se riuscirai ad affrontare il successo e la sconfitta
battendo quei due impostori allo stesso modo
se riuscirai ad ascoltare le verità che hai detto
distorte da furfanti per intrappolarvi gli stupidi,
o a veder distruggersi le cose per cui davi la tua vita
e a chinarti per rimetterle insieme con mezzi ormai logori;
se riuscirai a raccogliere tutte le tue vincite
e a giocartele in un sol colpo a testa-e-croce,
a perdere e a ricominciar tutto daccapo,
senza mai dir nulla sulla tua perdita;
se riuscirai a forzare cuore, nervi e muscoli,
benché sfiniti da un pezzo, a servire ai tuoi scopi,
e a tener duro quando niente più resta in te
tranne la volontà che dice: “tiene duro!”;
se riuscirai a parlare alle folle serbando le tue virtù,
o a passeggiar coi Re e non perdere il tuo fare ordinario;
se né i nemici o i cari amici riusciranno a colpirti,
se tutti contano per te, ma nessuno mai troppo;
se riuscirai a riempire il minuto inesorabile
e a dar valore ad ognuno dei suoi sessanta secondi,
il mondo sarà tuo allora, con quanto contiene,
e – quel che è più, tu sarai un Uomo, figlio mio!
Io ti chiesi
Io ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei
come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste
Cara Lilli
Cara Lilli, sei stata a lungo
tutta la gioia, tutto il mio canto;
adesso, ahimè, sei tutto il mio dolore, eppure
sei tutto il mio canto ancora.
Sant’Ambrogio
Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco
Per que’ pochi scherzucci di dozzina ,
e mi gabella per anti-tedesco
perché metto le birbe alla berlina,
o senta il caso avvenuto di fresco
a me, che girellando una mattina,
càpito in Sant’ Ambrogio di Milano,
in quello vecchio, la fuori di mano.
M’era compagno il figlio giovinetto
D’un di que’ capi un po’ pericolosi,
di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto
ove si tratta di Promessi Sposi…
Che fa il nesci, Eccellenza? O non l’ha letto?
Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi,
in tutt’altra faccende affacendato,
a questa roba è morto e sotterrato.
Entro, e ti trovo un pieno di soldati,
di que’ soldati settentrionali,
come sarebbe Boemi e Croati,
messi qui nella vigna a far da pali:
di fatto se ne stavano impalati,
come sogliano in faccia a’ generali,
co’ baffi di copecchio e con que’ musi,
davanti a Dio diritti come fusi.
Mi tenni indietro; ché piovuto in mezzo
Di quella marmaglia, io non lo nego
D’aver provato un senso di ribrezzo
Che lei non prova in grazia dell’impiego.
Sentiva un afa, un abito di lezzo:
scusi, Eccellenza, mi parean di sego,
in quella bella casa del Signore,
fin le candele dell’altar maggiore.
Ma in quella in quella che s’appresta il sacerdote
a consacrar la mistica vivanda
di sùbita dolcezza mi percuote
su, di verso l’altare, un suon di banda.
Dalle trombe di guerra uscian le note
Come di voce che si raccomanda
D’una gente che gema in duri stenti
e de’ perduti beni si rammenti
Era un coro del Verdi; il coro a Dio
Là de’ Lombardi miseri, assetati;
quello: O Signore, dal tetto natio,
che tanti petti ha scossi e inebriati.
Ricominciai a non esser più io
E, come se que’ cosi doventati
Fossero gente della nostra gente,
entrai nel branco involontariamente.
Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello,
poi nostro, e poi suonato come va;
e coll’arte di mezzo, e col cervello
dato all’arte, l’ubbìe si buttan là.
Ma cessato che fu, dentro bel bello
Io ritornava a star come la sa;
quand’eccoti, per farmi un altro tiro
da quelle bocche che parean di ghiro,
un cantico tedesco lento lento
per l’aer sacro a Dio mosse le penne:
era preghiera, e mi parean lamento,
d’un suono grave, flabile, solenne,
tal che sempre nell’anima lo sento;
e mi stupisco che in quelle cotenne,
in quei fantocci esotici di legno,
potesse l’armonia fino a quel segno.
Sentia nell’inno la dolcezza amara
De’canti uditi da fanciullo; il core
Che da voce domestica gl’impara,
ce li ripete il giorni del dolore;
un pensier mesto della madre cara,
un desiderio di pace e d’amore,
uno sgomento di lontano esilio,
che mi faceva andare in visibilio.
E quando tacque, mi lasciò pensoso
Di pensieri più forti e più soavi.
Costor, dicea tra me, re pauroso,
schiavi gli spinge per tenerci schiavi;
gli spinge di Croazia e di Boemme,
come mandre a svernar nelle maremme.
A dura vita, a dura disciplina,
muti, derisi, solitari stanno,
strumenti ciechi d’occhiuta rapina
che lor non tocca e che forse non sanno;
e quet’odio, che mai non avvicina
il popolo lombardo all’allemanno,
giova a chi regna dividendo, e teme
popoli avversi affratellati insieme.
Povera gente! Lontana da’ suoi,
in un paese qui che vuol male,
chi sa che in fondo all’anima po’ poi
non mandi a quel paese il principale!
Gioco che l’ hanno in tasca come noi.
Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale,
colla su’ brava mazza di nocciòlo,
duro e piantato li come un piolo
Il Cantico delle Creature
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove sui mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
sui ginestri folti
di coccole aulenti,
piove sui nostri volti
silvani,
piove sulle nostre mani
ignude,
sui nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancora trema, si spegne,
risorge, treme, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i malleoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove sulle nostre mani
ignude,
sui nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione
Il Rinato
Non videro la stella d’oriente
i magi, non andava innanzi a loro
ella per scorta su le nevi ardente;
non improvviso udiron elli il coro
dei Messaggeri in Betleem di Giuda
prostrandosi; non mirra, incenso ed oro
offersero alla creatura ignuda
sopra la paglia della mangiatoia
calda di fiati nella notte cruda;
né, curvi in calca sotto la tettoia
radiosa, i pastori di Giudea
intonarono cantico di gioia.
S’ebbe natività nella trincea cava il Figliuol dell’uomo; e solo quivi,
messo in fasce da piaghe, si giacea.
Fasciato di tristezza era tra i vivi
e i morti, solo; e il ferro e il sangue e il loto
erano innanzi a lui doni votivi.
E non piangea, ma intento era ed immoto.
Laude gli era il rimbombo senza fine
per il silenzio delle nevi ignoto;
cantico gli era il croscio delle mine
occulto; gli era aròmato il fetore
ventato su dalle carneficine.
E sanguinava in fasce; ed il rossore
Si dilatava come immenso raggio,
sicché tutti i ghiacciai parvero aurore,
tutte le nevi parvero il messaggio
dei dì prossimi, l’ombra fu promessa
di luce, il buio fu di luce ostaggio.
Ed intendemmo la parola stessa
del suo profeta: “Un grido è stato udito
in Rama, un mugolio di leonessa,
un lamento, un rammarico infinito:
Rachele piange i suoi figliuoli che non sono più.
Una cosa novella, ecco, è creata.
Il Signore ha creata una virtù
nella carne. Quel ch’apre la matrice
Ei farà santo. Ei semina quaggiù
una semenza d’uomini”. Ora dicembre una voce: “Io farò rigermogliare
in carne i tuoi germogli, o genitrice.
Ritieni gli occhi tuoi di lacrimare,
ritieni la tua gioia del lamento;
perché come la rena del tuo mare
t’accrescerò, come la rena al vento
ti spanderò. Eccoti i tuoi figliuoli
moltiplicati dal combattimento.
Senza sudarii tu, senza lenzuoli,
li seppellisci ed io li dissotterro.
Rifioriranno ai tuoi novelli soli,
alla nova stagione ch’io disserro”.
E quivi il Figliuol d’uomo era, il Rinato;
e quivi erano il loto e il sangue e il ferro.
E con fasce da piaghe era fasciato;
e sanguinava senza croce, come
per il colpo di lancia nel costato.
Ma “Colui ch’è il più forte” era il suo nome
Odi et amo
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Vivamus, mea Lesbia (Traduzione di Quasimodo)
Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,
e ogni mormorio perfido dei vecchi
valga per noi la più vile moneta.
Il giorno può morire e poi risorgere,
ma quando muore il nostro breve giorno,
una notte infinita dormiremo.
Tu dammi mille baci, e quindi cento,
quindi mille continui, quindi cento.
E quando poi saranno mille e mille,
nasconderemo il loro vero numero,
che non getti il malocchio l’invidioso
per un numero di baci così alto.
Ritratto
Esiste una bocca scolpita,
un volto d’angelo chiaro e ambiguo,
una opulenta creatura pallida
dai denti di perla,
dal passo spedito,
esiste il suo sorriso,
aereo, dubbio, lampante,
come un indicibile evento di luce.
Congedo del viaggiatore cerimonioso
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio)’ confidare.
(Scusate. E una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento
Foglie
Quanti se ne sono andati
quanti
che cosa resta
nemmeno
il soffio
nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza
tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia
come
non lascia traccia il vento
sul marmo che passa
come non lascia orma l’ombra
sul marciapiede
tutti
scomparsi in un polverio
confuso d’occhi
un brusio di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri
foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.